Su “La storia velata. Crisi e riscatto della presenza” di Ernesto de Martino.

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Ernesto de Martino è un nome noto e ancora misterioso. I suoi studi si prestano a un’aura che torna ad affascinare; un mistero nel mistero, o forse no, come il fascinans del suo Mondo Magico. La pubblicazione di questi materiali, La storia velata. Crisi e riscatto della presenza (Einaudi, 2025), completa quel percorso creativo tra il 1948 e il 1958, fino al capolavoro postumo, e grandioso, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali (1977, 2019).

Eppure, il loro valore non è solo storico-filologico. Questi scritti illustrano un quadro teorico preciso, sono introduzione e cornice, e in tal senso retroattivamente illuminanti; un approccio così personale e filosoficamente alto, di una raffinatezza di pensiero ormai riconosciuta, là dove l’antropologia diviene pratica fondata e fondante un’antropologia filosofica. I riferimenti dell’epoca pre-strutturalista, da Heidegger a Sartre e più in generale la fenomenologia, alla psichiatria biswangeriana, jaspersiana e poi basagliana, sono noti. Il taglio non è applicativo, ma squisitamente concettuale. Se l’adagio freudiano postula una continuità tra psicologia individuale e collettiva, in De Martino l’antropos preso nella sua psyche è posto davanti alle stesse questioni della vita comunitaria, e alle sfide drammatiche che comporta l’esistenza tout court. Non vi è compito specifico, adattamento o telos: c’è qualcosa di più radicale, a suo modo perturbante, che tocca un limite spesso dimenticato. Rapporto individuo-comunità, rapporto dell’individuo tra sé e sé, rapporto individuo-individuo, ovunque si spande quel «ci» che l’analitica esistenziale di Heidegger mette come base. Ovunque è il «ci», che lega l’uomo come Esserci (Dasein); gettato, dovrà cavarsela nei legami di significato, senso, valori e comunità, che fanno il Mondo. Essere-nel-mondo, dunque, ma il mondo non è semplicemente dato.

A far si che vi sia Mondo, è la centralità che De Martino dà alla «presenza». È soltanto una categoria concettuale heideggeriana, o forse è quanto di più semplice e liminale si possa provare a dire dell’esistere. Come vivere senza “essere presenti” appare impensabile; è irrilevante come problema, se non ci si sofferma su quei momenti in cui non c’è più alcun appiglio per affermare di essere. L’abisso sul Nulla, che Heidegger descrive, è l’abisso sulla disgregazione assoluta. Il grande psichiatra Ronald Laing usava la formula, ormai giustamente celebre, di insicurezza ontologica a proposito della psicosi; “il pavimento sotto i piedi”, “l’evidenza naturale”, non sono garantiti per l’uomo: e se la comunità, ogni comunità, fosse chiamata ad affrontare lo spettro di questa non-garanzia? Il fatto che il moderno, con la scienza, possa effettivamente illudersi di non preoccuparsene, non abolisce la questione. Dunque,

L’esistenza è presenza (Dasein, esserci), la presenza è trascendimento della situazione nel valore, oltrepassare ciò che passa facendolo passare in forme di coerenza culturale. La presenza esiste nella misura in cui decide valorizzando ed entra in crisi nella misura in cui resta prigioniera di una situazione critica […] L’esistenza è pertanto presentificazione valorizzante in lotta col rischio di non esserci. (De Martino, p. 45)

La presenza heideggeriana è qui ethos del trascendimento. Il trascendimento è ciò che permette sia all’individuo sia alla comunità di esistere. Infatti,

Per questo movimento essa (la presenza) si stacca dalla situazione, emerge da essa, la fonda come situazione di un mondo «operabile» e si apre alla universalizzazione dei valori, alle forme di coerenza culturale. (ivi, p. 47)

Con accento sartriano, perché vi sia Mondo e Presenza, la situazione deve entrare nell’operatività, cioè si deve aprire la possibilità di un operare, di un trascendere, di un andare oltre la situazione. Essa è anche apertura all’universo culturale, che fornisce senso, strumenti, coerenza, perché la situazione sia oltrepassabile. La posta in gioco non è il controllo o la padronanza, ma l’apertura al regime stesso del possibile. Le situazioni di «crisi» rappresentano dunque quell’orizzonte in cui c’è soltanto prigionia e alienazione in una situazione data. Ora, il divenire storico è ciò che mina, disturba, talvolta spezza l’ethos del trascendimento. Il «ci» è storicità, cioè la storia è storia personale (a livello di un individuo) e le forme culturali sono delimitate nel tempo nello spazio, tutto è situato; d’altro canto, il valore ha una tensione universalizzante. Ma il divenire storico, il succedersi di eventi imprevisti o passibili di distruggere ogni coerenza, ogni possibilità di esistenza (il profilarsi, essenzialmente, della morte), apre alla crisi della presenza. Essa è “qualcosa” che accade e potrebbe sempre accadere, poiché attraversa ogni luogo e ogni tempo. De Martino cita anche quei momenti cardini, connessi a «crisi organiche decisive» (ivi, p.60), o a «particolari rapporti economici e sociali» (ibidem), che si prestano in modo particolare a divenire critici.

Infatti,

Il momento critico dell’esistenza è critico perché impone una decisione e una scelta, un pronto adattamento alla realtà, un comportamento ricco di conseguenze altamente impegnative per la presenza. (ivi, p. 56)

È tale momento l’orizzonte della crisi. 

La crisi è il vuoto dell’opera […] Nella crisi la storicità della condizione umana sporge come potenza del negativo, come rischio di un accadere senza e contro l’uomo, e come crollo di un qualsiasi possibile condizionamento per entro i quadri della tradizione realistica e mondana offerti dalla cultura di cui si è partecipi. (ivi, p. 57)

E in fondo alla crisi, all’immane potenza del negativo di Hegel, ecco apparire l’oscura Angst heideggeriana, che nella ricerca di De Martino si presenta fenomenicamente come un essere posseduto da, essere privati di, essere-agiti-da, nelle sue varie forme rappresentative e pratiche, ricongiungendo esperienza psichica individuale e collettiva. La struttura è la stessa delle grandi crisi psicotiche ed esistenziali, alla dissociazione che esse impongono, e alla necessità di una reintegrazione, di un riscatto.

Il sacro qui si complica e si semplifica. Riprendendo esplicitamente il celeberrimo saggio di Walter Otto, che descrive il sacro come esperienza più che come struttura, l’ambivalenza del tremendum e del fascinans è riconfigurata nell’ambivalenza tra l’alienazione, il totalmente altro in cui rimane imprigionata la presenza, e la vocazione alla reintegrazione. Nel medesimo punto, alla medesima radice c’è il dritto e il rovescio, il demonico e il divino, della crisi e del suo superamento. L’ambito religioso assume tutt’altro volto; il religioso è l’ambito in cui si può esperire sia la crisi che la sua risoluzione, sia risponderle che prevenirla.

Il processo effettivo è la cosiddetta destorificazione mitico-rituale o destorificazione istituzionale. Uscire dalla storia, foriera di momenti critici, per un piano meta-storico, l’illo tempore del tempo mitico, per poter re-integrare, ricondurre al valore, ciò che si perde o si può perdere. Nel tempo mitico, ciò, il momento critico, è già accaduto ed è stato risolto, dunque è risolvibile. Questo è il nesso mitico-rituale: il mito come parola fissata e il rito come iterazione, sempre uguale a se stessa, agìta, in un intreccio, hanno funzione protettiva, permettono quel movimento di rovescio della potenza del negativo nella positività del valore, un «come se» che, nella sua efficacia simbolica, per dirla con Lévi-Strauss, riconduce l’assoluto insensato al perimetro di un senso condivisibile, e alla risoluzione. Ciò serve a prevenire, garantire, curare, ciò che, di per sé, non ha alcuna garanzia. È un velo. Nelle parole di De Martino:

Il simbolo mitico-rituale esercita tre fondamentali funzioni esistenziali. Innanzitutto è orizzonte di configurazione, di ripresa, di deflusso e di reintegrazione dei momenti critici rescissi; in secondo luogo è orizzonte di destorificazione dei momenti critici ricorrenti in un dato regime esistenziale; in terzo luogo è orizzonte di destorificazione del futuro mediante la sua anticipazione prospettica. (ivi, 105)

Passato, presente, futuro sono annullati, vanificati, in specchio della crisi, ma per restituirne la sussistenza, perché vi sia di nuovo temporalità. Importante è la pagina che De Martino dedica alla psicoanalisi, come tecnica di ripresa, non tanto di un conflitto passato, ma di un conflitto che continua ad agire nel presente come contenuto scisso, invocante la sua risoluzione. Poi, c’è il rapporto con la psicosomatica, e la distinzione sottile e fondamentale tra magia e religione, come due campi che si intersecano, ma non si sovrappongono perfettamente. In questo, l’aspetto metodologico di De Martino è chiaro:

Se non è più possibile immettersi in buona fede nella posizione magico-religiosa di fronte al naturale e al miracolo, non è però neppure più sufficiente attenersi al saggio di David Hume su questo argomento. (De Martino, 98)

In tal senso, le scienze umane hanno rappresentato un crocevia concettuale. Gli articoli contenuti nella sezione “Appendici”, nel confronto con lo storicismo, danno conto di tutto il rigore metodologico del dibattito. Persino la congiunzione carnale può essere letta alla luce di questi strumenti. Con grande finezza descrittiva, la congiunzione carnale possiede caratteristiche che rimandano alla potenzialità della crisi, crisi dei limiti soggettivi, dei vissuti corporei, di esposizione al nuovo e di estraniazione, chiamando il pudore a velare e la piccola storia a due degli amanti a narrare, per uscire dal divenire storico, nella notte e nel nascondimento, e a sua volta, a livello antropologico, nei riti propiziatori e nuziali, rifarsi alla “coppia ancestrale” per scongiurare la crisi.

In tutti i materiali proposti, un modello analitico inquadra esperienze apparentemente distanti, che si trovano riunite in un antropos che è l’oggetto di studio dell’antropologia. Ora, la questione della presenza appare qualcosa di scontato, se non rimosso, richiamando nostalgie per un Mondo Magico perduto. Ma De Martino, illuminandone la struttura, vuole superare sia l’ingenuità che il positivismo più stringente, di matrice eurocentrica. Questo livello concettuale, che cerca di pensare l’impensabile dell’esistere, allarga la visuale della storicità in cui si vive.

Oggi, è risaputo che la sicurezza è un tema predominante, un’apoteosi che può essere utilizzata, e viene utilizzata, anche per giustificare i peggiori crimini tuttora in atto; questo perché la Presenza, pur nel Mondo scientifico e secolarizzato, non è né data né scontata. Il dispositivo crisi-riscatto ha risvolti politici. La sua positività può salvare vite (singole e comunitarie), così come rovesciarsi di nuovo nella potenza del negativo ora incanalata contro il nemico da sterminare. Il riscatto, manovrato, può avere il prezzo di un genocidio.

Mattia Giordano

Classe '95, milanese, laurea magistrale in Psicologia, appassionato di psicoanalisi, filosofia, teoria critica, letteratura per lo più italiana e francese. Anche di cinema e teatro, perché ci sono, e ci saranno sempre, film e spettacoli belli. Musicista e scrittore a tempo perso, si spera un giorno a tempo pieno. Ha fatto un po' di tutto, quindi, probabilmente, niente.

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