Non è sempre semplice abitare questo presente post-moderno. Il grande trionfo dell’iperconnessione, dell’atomismo digitale, intessuto di rapporti che si fanno ibridi, metà sangue e ossa, metà codici binari; umani disincarnati la cui corporeità complessa è sintetizzata nell’immagine di una videoconferenza, in numero in serie, nelle statistiche di valutazione della performance. Già nel 1985, la filosofa baluardo del pensiero femminista contemporaneo, Donna Haraway, infusa di una non comune capacità di leggere il presente e scrutare nel futuro, aveva egregiamente individuato un possibile nome per raccontare questa modernità fatta di innesti oltre l’umano, oltre la biologia. Cyborg, umano e macchina che trascende il binarismo, il genere, la realtà e il fantastico.
Con l’avvento dei nuovi media, delle intelligenze artificiali, e soprattutto a seguito dello shift nella comunicazione avvenuto successivamente alla pandemia di Covid-19, abbiamo appreso che possiamo intessere rapporti senza prossemica, che possiamo essere umani senza carne e persino essere reali senza materialmente esistere. L’impalcatura ontologica ed epistemologica occidentale si è mostrata fragile, non pronta a fornirci adeguati ed esaustivi strumenti d’interpretazione. Chi siamo, ci domandiamo? Come comunichiamo? Ma soprattutto, cosa è effettivamente reale? Allargando il raggio d’indagine oltre i confini consueti e rassicuranti del pensiero, modalità d’identificazione altre e apparentemente lontane, possono fornire prospettive utili e innovative.
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A differenza di quanto accade in Occidente, presso alcune culture indigene, specificamente in contesto nord e sudamericano, nessun piano del reale è considerato a priori più epistemologicamente rilevante degli altri. Il sogno, l’allucinazione, il mito e ciascuno degli stati non ordinari di coscienza inducibili attraverso l’assunzione di sostanze psicotrope godono di dignità ontologica pari alla veglia e alla non-alterazione di sé. La costruzione ontologica indigena, dunque, non prevede alcuna contrapposizione binaria accostabile al modello occidentale sogno/realtà. L’allucinazione e il sogno, al contrario, si inseriscono in perfetta continuità con il “reale” (da cui non sono necessariamente percepiti come distinti) in quanto, come sostiene l’antropologo Eduardo Kohn nel proprio saggio eloquentemente intitolato Come pensano le foreste, nessuno dei due piani esclude la produzione di significato e la compartecipazione alla vita come processo che l’autore definisce “semiotico” (Kohn 2013).
I Runa sono un gruppo indigeno di lingua Quechua stanziato nell’Alta Amazzonia dell’Ecuador. Il termine “Runa” è un etnonimo che indica la persona umana, più precisamente evidenziando la posizione di «soggetto relazionale in un’ecologia cosmica di sé in cui tutti gli esseri vedono sé stessi come persone» (Kohn 2013, p. 33). A partire dalla propria esperienza etnografica svoltasi presso il villaggio runa di Ávila e in particolare dall’analisi dell’intreccio di relazioni interspecifiche che l’ecosistema della foresta amazzonica pone quotidianamente in essere, Kohn giunge a descrivere la vita come “semiosi”, intendendola come processo segnico vivente dove accade che da un pensiero, se ne generano infiniti altri.
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Affinché i Runa possano sopravvivere all’interno dell’ecologia dei sé in cui sono immersi è necessario che compiano uno sforzo attivo di riconoscimento della “seità” propria di ogni ente che abita il loro microuniverso di significato; devono, dunque, rappresentarsi all’interno di una rete di relazioni «che si basa in parte sul fatto che i suoi membri sono dei sé viventi e pensanti» (Kohn 2013, p 68), ovvero in grado di partecipare ai processi semiotici della vita, a partire da prospettive altre rispetto quella umana.
Se la produzione di segni, rileva Kohn, all’interno dell’ecologia dei sé di cui la foresta amazzonica fornisce un esempio particolarmente rappresentativo, si estende oltre l’umano, includendo tutti gli esseri che quotidianamente compartecipano alla vita come semiosi, tale processo non può esaurirsi nella sola modalità segnica umana. Mentre il simbolo[1] è l’unica classe di segni esclusivamente umana, icone[2] e indici[3] rappresenterebbero strategie segniche extralinguistiche comuni a tutte le specie viventi. In tal senso, tutti i sé viventi sono impegnati in un continuo tentativo di produzione e di interpretazione di segni, che si estende oltre la mente umana[4] e che necessita, per questo, l’impiego di espressioni semiotiche che risultino intelligibili alle specie, animali e vegetali, a cui ci si relaziona. L’obiettivo è sviluppare efficaci forme comunicative ibride, che Kohn rinomina “pidgin trans-specie”, che consentano la mutua comprensione ma senza obliare il proprio posizionamento specifico nelle gerarchie di senso sancite dall’ecosistema vivente di appartenenza.
Abitare un corpo umano, infatti, nell’ambito dell’edificio ontologico runa, non è in alcun modo un’esperienza neutra; al contrario, comporta il riconoscimento e la vera e propria incorporazione di regimi socio-culturali e soprattutto storici, traslati in rapporti di potere che afferiscono alla semantica della colonizzazione, della predazione di cibo, della comunicazione ultra-mondana. Sono habitus inscritti nei corpi e nel loro relazionarsi al territorio, che trascendono il piano della materialità e del presente.
Come sostiene Kohn: «Tutti i segni […] hanno a che fare con il futuro […]. Sono degli appelli ad agire nel presente attraverso un futuro che viene reso presente [represented] e che, in virtù di tale appello, può quindi esercitare la sua effettualità sul presente» (Kohn 2013, pp. 90-91). Lo sforzo di interpretazione di segni, che conduce all’emergere di forme di relazionalità trans-specifica semiotiche ma non necessariamente linguistiche, si estrinseca dunque nella necessità di trarsi fuori dall’assolutezza del proprio sguardo e delle proprie modalità di rappresentazione. Allenandosi a congetturare come il mondo appaia e sia rappresentato da altri, a loro volta portatori di habitus inestricabili dal proprio passato, i sé viventi coinvolti nel processo semiotico possono prevedere un ventaglio di “futuri-possibili” (Kohn 2013, p. 91), all’interno dei quali rintracciare e costruire il proprio margine d’azione.
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L’anima (alma), in accordo con l’ontologia runa, si configura come elemento che emerge relazionalmente dall’interazione con gli altri sé semiotici e di cui tutti gli esseri sono reciprocamente consapevoli; in questo senso i sé, in quanto dotati di anima, esistono sia in quanto individualità incarnate, localizzate entro i confini della propria pelle, sia al di là dei corpi, come qualità relazionali che eccedono l’individuale e l’umano.[5]
La condizione del sogno, in maniera non dissimile da altre cosmologie indigene, non può quindi essere pensata in opposizione a quella di veglia, in quanto: «La vita si estende oltre i confini di un particolare locus corporeo [embodied] di seità» (Kohn 2013, p. 196). L’esperienza del sogno, come perdita del proprio locus corporeo, non conduce ad alcuna forma di desoggettivazione; al contrario, consente l’accesso a prospettive altre e superiori a quella consueta e può fattivamente operare sul reale. Ad esempio, racconta Kohn, l’interpretazione corretta di un incontro onirico (che predice una caccia al cervo proficua, consentendo di accedere a una prospettiva ontologica gerarchicamente superiore) di cui una donna runa è stata protagonista può condurre alla configurazione di quest’ultima come locus dell’agentività, a partire dalla quale, attraversando i confini trans-individuali e di specie, ogni elemento coinvolto nella battuta di caccia non è altro che estensione strumentale del suo sé. In altre parole, l’agentività della donna in sogno può concretizzarsi nel reale, ma «solo se estende se stessa attraverso gli oggetti» (Kohn 2013, p. 208), ovvero instaurando relazioni opportune con altri enti (il marito, il fucile da lui imbracciato, la preda), che diventano estensioni strumentali del suo sé.
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L’impianto cosmologico runa giunge sostanzialmente a tratteggiare un’ecologia di sé interconnessa e plurisegnica, le cui interazioni, che valicano i piani di genere, di specie e di realtà, risultano nell’annullamento della dicotomia necessitata tra soggetto (indiscutibilmente insignito di agency, capacità di comunicazione simbolica e agente nel piano del reale) e oggetto.
Abitare il nostro presente post-moderno richiede uno sforzo conoscitivo, interpretativo e di auto-rappresentazione considerevole, che ci ha dimostrato non potersi più ergere esclusivamente sulle solite modalità apprese e ben rodate. Il rischio, come per i Runa di Ávila, è la desoggettivazione, la perdita del sé nell’innesto semiotico di interazioni oltre la corporeità. Anche se non è nella quotidianità di tutti accedere in sogno a un piano d’esistenza spirituale nel quale imparare a interagire correttamente con giaguari e divinità, come accade ai Runa, ugualmente oggi ci imbattiamo non di rado in sfide nuove che trascendono la materialità e ci spingono verso campi di produzione del significato altri. Postulare l’esistenza di un’ecologia di sé complessa, esigente un lavoro più-che-simbolico di traduzione tra enti, in questo senso è forse la lezione più utile che possiamo trarre dal lavoro di Kohn.
Bibliografia
Haraway, Donna J., 1991: A Cyborg Manifesto, New York: Routledge. Trad. it. Di Liana Borghi, Manifesto Cyborg, Milano: Feltrinelli, 2022.
Kohn, Eduardo, 2013: How Forests Think: Towards an Anthropology Beyond the Human, Oakland: University of California Press. Trad. it. di Alessandro Lucera e Alessandro Palmieri, Come Pensano le Foreste: per un’antropologia oltre l’umano, Milano: Nottetempo, 2021.
[1] «Un Simbolo è un segno che si riferisce all’Oggetto che esso denota in virtù di una legge, di solito un’associazione di idee generali, che opera in modo che il Simbolo sia interpretato come riferentesi a quell’Oggetto» da Peirce, Charles, 1903: “Nomenclatures and Divisions of Triadic Relations”, trad. it di M. Bonfantini, Opere, Milano: Bompiani, 2003, p. 155.
[2] «Un’Icona è un segno che si riferisce all’Oggetto che essa denota semplicemente in virtù di caratteri suoi propri, e che essa possiede nello stesso identico modo sia che tale Oggetto esista effettivamente, sia che non esista.» ivi, p. 153.
[3] «Un Indice è un segno che si riferisce all’Oggetto che esso denota in virtù del fatto che è realmente determinato da quell’Oggetto. […] Nella misura in cui l’Oggetto agisce sull’Indice, l’Indice ha necessariamente qualche qualità in comune con l’Oggetto, ed è rispetto a queste qualità che l’Indice si riferisce all’Oggetto.» ivi, p. 154.
[4] cfr. Kohn, Eduardo, 2013: How Forests Think: Towards an Anthropology Beyond the Human, Oakland: University of California Press. Trad. it. di Alessandro Lucera e Alessandro Palmieri, Come Pensano le Foreste: per un’antropologia oltre l’umano, Milano: Nottetempo, 2021.
[5] cfr. Kohn, Eduardo, 2013: How Forests Think: Towards an Anthropology Beyond the Human, Oakland: University of California Press. Trad. it. di Alessandro Lucera e Alessandro Palmieri, Come Pensano le Foreste: per un’antropologia oltre l’umano, Milano: Nottetempo, 2021, p. 197.