Lontano dal riverbero dello scranno dorato di Cronenberg, e oltre le lusinghe di Lynch, il genere del body horror è stato per lungo tempo relegato a una nicchia oscura e marchiata d’infamia, così come i suoi irriducibili estimatori. Fino a non troppo tempo fa infatti, “body horror”, nell’immaginario collettivo, avrebbe evocato solo allucinazioni deformi, ripugnanti alla vista – sebbene spesso involontariamente comiche per la qualità della realizzazione – e forum online goticheggianti di qualità ancora più bassa con un picco di quindici visitatori al giorno, tutti riconducibili allo stereotipo del nerd invasato di nero vestito e dai capelli unticci. Eppure, dal successo all’Accademy del The Substance (2024) di Coralie Fargeat, passando per il più recente Together (2025) fino all’attesissimo The Ugly Stepsister, uscito ieri nelle sale italiane, è chiaro che nel 2025 il body horror stia vivendo una fase di inaspettata notorietà, e che abbia ormai indubbiamente valicato i confini del suo antro per entrare definitivamente nel mainstream.
Ma dobbiamo davvero stupircene? I corpi, i corpi mutilati, deformi, vecchi, brutti, i corpi mostruosi, i corpi indisciplinati, hanno ancora parecchio da dire; ancora meglio, sono ancora perfettamente in grado di farci paura, e lasciarci addosso una sensazione di inquietudine che fatica ad andare via, che va ben oltre l’impatto immediato con l’immagine. E se l’eredità di Foucault l’abbiamo coltivata a dovere, forse dalle deformità, dai fluidi, dal sangue, dalle viscere fuse, che sembrano aver preso d’assalto le sale e i nostri incubi, sappiamo bene di avere anche qualcosa da imparare. Il body horror è il genere che più di ogni altro conferisce al corpo, nella sua datità, un ruolo da protagonista. Eppure, sebbene si caratterizzi proprio per la tendenza a portare in scena la materialità dell’esperienza incorporata in modo ostentatamente esplicito (sino a sfiorare l’insostenibile con scene di una crudezza spesso estrema, si pensi al celeberrimo Tusk), la narrazione non risulta mai appiattita sulla sola lettura immediata, né sul solo jump scare. Al contrario, i corpi nel body horror, proprio in quanto principale veicolo del messaggio che la pellicola vuole comunicare, si fanno estremamente versatili e capaci di intercettare e condensare metafore e letture diverse.

In primo luogo, la stessa premessa del genere, ovvero la possibilità di sezionare i corpi, scambiarli, operare su di essi in forma progettuale, non può che muovere dal paradigma cartesiano della distinzione tra anima e corpo. A una ragione trascendente, virtualmente eterna e atemporale (solitamente maschia), e dotata di potere decisionale è affidato il compito di agire su un corpo altro da sé, che è naturalmente fallato o fallace, spesso femminile o femminilizzato nella misura in cui sottoposto a pratiche di passivizzazione. Tale processo avviene spesso su due piani distinti, tra loro talvolta sovrapponibili: da un lato, quello della progettazione scientifica (o religiosa o settaria), che agisce sui corpi come principio iniziatore di una materia inerte; dall’altro, il desiderio individuale di perfettibilità, agito attraverso il controllo di un corpo che quindi ha una funzione primariamente accessoria e che può sempre essere sottoposto a disciplina ed è sempre migliorabile. Un corpo che è sostanzialmente una macchina nel senso più eminentemente descartiano, “un assemblaggio di membra”, che di conseguenza può sempre essere riassemblato. Nel presente, si tratta di quella forma di progettualità del corpo teorizzata dal sociologo Anthony Giddens (1991), che descrive eloquentemente i corpi come non mero dato biologico, bensì materia plastica da plasmare al fine di costruire una rappresentazione del sé coerente con i dettami sociali; tale processo avviene attraverso una forma di autoriflessività che diventa rapidamente autosorveglianza.
È quello che accade al personaggio di Elizabeth Sparkle, interpretato da Demi Moore, in The Substance, che sceglie volontariamente di iniettarsi un siero che generi una versione nuova e migliore di lei, o alla chirurgia estetica violentissima a cui viene sottoposta la sorellastra cattiva nel nuovo retelling orrorifico di Cenerentola.

Al contrario, come accade nel cult del 2009 Jennifer’s Body, il corpo può anche costituire lo spazio in cui mettere in gioco forme di opposizione a un regime di controllo biopolitico che si estrinseca nella forma di sorveglianza costante dell’immagine al fine di mantenere uno specifico status. Nel film, la protagonista, Jennifer (Megan Fox), la ragazza più popolare della scuola, viene trasformata in un demone divoratore di carne umana, e il processo di mutazione è mostrato su schermo in maniera simile al progredire di una malattia. Qualcosa di simile accade anche a Justine, protagonista di Raw, pellicola francese del 2016 firmata da Julia Ducournau nel quale la giovane protagonista esperisce un vero e proprio coming of age mostruoso e liberatorio, nel quale si scopre cannibale. I corpi (malati, irrequieti, affamati) di Jennifer e di Justine in questo caso possono costituire una forma incarnata di resistenza a un sistema oppressivo, in accordo con la visione proposta dall’antropologa medica Nancy Scheper-Hughes (1992). Il normale stato di cose è quindi costituito da un rigido controllo dei confini e delle frontiere del corpo, che è contemporaneamente metafora e incarnazione dell’ordine del mondo (cfr. Douglas 1966). Il corpo deformato da un tentativo parossistico di perfezionismo, o il corpo malato che perde il controllo, diventa quindi il mezzo perfetto per descrivere il sistema, esplicitarne i limiti e redarguire, nella maniera più foucaultiana possibile, chi osa sfidarli. Il caso di The Substance è poi particolarmente interessante: ci terrorizza non solo per il modo grottesco in cui viene punita la hybris della protagonista, ma forse soprattutto per il modo in cui il sistema i corpi li punisce già. Il corpo di Demi Moore, ancora prima di sottoporsi a un body project riflessivo, è già disgustoso, se non per lo spettatore certamente per l’industria dello spettacolo che cancella sistematicamente i corpi delle donne quando si fanno inservibili, vecchi, brutti. Lo stesso fa Elizabeth Sparkles: quando indossa il corpo di Sue (Margaret Qualley), si affretta a nascondere ogni traccia dell’esistenza stessa del proprio corpo, ormai obsoleto. Ma qualcosa di inspiegabilmente disturbante c’è anche nel modo in cui le telecamere che snobbano Demi Moore ipersessualizzano Margaret Qualley nella scena di ballo, contrapposta nel montaggio all’eviscerazione di un tacchino. Anche quel corpo è mostruoso, perché corpo cyborg, attivamente prodotto da una scienza maschia e onnisciente, per soddisfare un desiderio tutto maschile.

Nel terrorizzarci a morte, quindi, il body horror non ci mostra altro che un’ennesima forma di contrappasso. Il sistema i corpi li controlla sempre, ma la loro mostrificazione può avvenire in maniera uguale e contraria. Può essere un’infezione che rende il corpo irrequieto, lo sottrae al controllo della mente e lo porta ad agire oltre le pratiche e le modalità socialmente attese, può anche essere la forma più compiuta e diligente di adesione a quanto richiesto. In ogni caso, le belle ragazze dovrebbero sempre sorridere, finché avranno tutti i denti.
