Nella psicologia analitica o del profondo ideata da Carl Gustav Jung[1], il concetto di archetipo ricopre un ruolo fondamentale. Tale concetto indica un principio cardine del pensiero junghiano ed è diventato nel corso del tempo (in questo caso, dall’interpretazione di Jung in avanti) un termine studiato, indagato non solo nell’ambito della psicologia ma anche in diversi contesti sia umanistici (filosofia, religione) che scientifici (biologia, fisica). L’interpretazione dello psicologo svizzero ha consentito una nuova riflessione su questo termine che si protrae ancora oggi. Per parlare però dell’archetipo bisogna prima spiegare un altro concetto, fulcro del pensiero junghiano, quello di inconscio collettivo. All’inconscio personale freudiano che consiste di desideri, pulsioni personali rimossi sottostanti alla psiche dell’individuo cosciente, Jung identifica un altro strato di inconscio, chiamato collettivo poiché in esso agiscono elementi che sono universali, assoluti, presenti in ogni cultura ed in ogni luogo[2]. Per Jung, tutto quello che giace nell’inconscio collettivonon deriva dalla psiche dell’individuo. Sono elementi che vengono trasmessi attraverso l’ereditarietà, estranei alla coscienza personale dell’individuo[3]. Inoltre, secondo il pensiero di Jolande Jacobi, psicanalista e allieva di Jung, l’inconscio collettivo «in quanto matrice sovrapersonale, in quanto somma illimitata di condizioni psichiche fondamentali accumulate in milioni di anni, possiede un ampiezza incommensurabile e una profondità che non è scandagliabile[4]».
L’inconscio collettivo funziona e si struttura sulla base di archetipi, che «indicano l’esistenza nella psiche di forme determinate che sembrano essere presenti sempre e ovunque[5]». Tali strutture sono inconsce inizialmente, per poi apparire alla psiche conscia dell’individuo. Essendo gli archetipi forme preesistenti, trovano un nesso con il concetto biologico di istinto applicabile al mondo animale, per tale motivo Jung sostiene che «gli archetipi siano le immagini inconsce degli istinti stessi, in altre parole, che essi siano modelli di comportamento istintuale[6]». L’archetipo in quanto tale, non può essere conosciuto secondo Jung, se non attraverso la sua manifestazione, cioè attraverso immagini archetipiche che appaiono alla coscienza. La non conoscenza diretta dell’archetipo sembra suggerire una visione metafisica, simile a quella delle idee platoniche, che trascendono completamente l’essere. La visione di Jung sembra però procedere con un approccio empiristico piuttosto che metafisico, giustificato dalla sua attività di psicanalista. Queste immagini che si manifestano sono riscontrabili, come Jung stesso verificò, nei sogni, nelle fantasie di tutti gli individui ripetendo comportamenti istintuali che nel corso della storia hanno assunto varie forme o modelli rintracciabili nei miti, nelle simbologie religiose, nelle fiabe ecc. Jung usò inizialmente il termine «immagini primordiali[7]» per definire questo materiale ripetitivo che trovava, per poi passare ad usare la parola archetipo dal 1919 nel suo scritto Istinto ed Inconscio (derivata dalla lettura del Corpus Hermeticum ed influenzata dal pensiero agostiniano)[8].
Le raffigurazioni dell’archetipo sembrano suggerire una fissità di espressione delle immagini-modello psichiche, ma per lo psicologo svizzero il concetto di archetipo è allargabile ad ogni avvenimento o forma esistente, includendo quindi una forza dinamica e un divenire dell’archetipo, e rinunciando ad una visione prettamente statica. Anche Erich Neumann[9] rileva questo aspetto, sostenendo che l’archetipo in sé è statico, ma che sorgendo come immagine all’uomo e acquisendo una forma, muta perennemente transitando da un’immagine ad un’altra, in una trasformazione continua[10]. Importante è sottolineare che Jung pone una divisione e una differenza sostanziale tra il concetto di archetipo e quello di immagine archetipica: il primo è inconoscibile e resta celato nel regno dell’inconscio (in una zona extra-psichica denominata psicoide dallo stesso Jung), mentre il secondo, può rendersi visibile attraverso le sue rappresentazioni per immagini. L’archetipo sale alla coscienza prendendo una forma e diventando visibile, numinoso[11]. La numinosità è l’aggettivo chiave per capire il funzionamento dell’archetipo, che come dice Jung:
non è solo immagine in quanto tale, ma nello stesso tempo anche un dinamismo, il quale si manifesta nella numinosità, nella forza affascinante dell’immagine archetipica. La realizzazione e assimilazione della pulsione avviene (…) non mediante uno sprofondamento nella sfera pulsionale ma unicamente mediante l’assimilazione dell’immagine che nello stesso tempo significa ed evoca anche la pulsione, sebbene in una forma totalmente diversa da quella in cui la incontriamo sul piano biologico (…) Essa [la pulsione] ha due aspetti: da un lato è esperita come dinamismo fisiologico, mentre d’altro lato le sue molteplici forme entrano nella coscienza come immagini e gruppi di immagini e sviluppano effetti numinosi che stanno o sembrano stare in asperrimo contrasto con la pulsione fisiologica (…) L’archetipo, in quanto immagine della pulsione, è psicologicamente una meta spirituale a cui tende la natura dell’uomo[12].
L’archetipo nella sua manifestazione numinosa in immagine si carica di valore simbolico, diventa quindi un simbolo. Esso agisce come portatore di significati profondi che esulano dalla comprensione logica. Il simbolo contiene sempre un archetipo per essere definito tale, cioè contiene una forza archetipica che agisce e che lo plasma. Non c’è quindi nessuna differenza nel parlare di immagine archetipica o di simbolo, poiché entrambe manifestano l’azione degli archetipi. Bisogna inoltre considerare che il linguaggio simbolico rappresenta una condizione primaria rintracciabile nell’essere umano (come quella biologica) di natura spirituale, che lo forma a partire dall’azione degli archetipi che aprono quest’altra dimensione esprimibile attraverso immagini psichiche che hanno analogie con il mondo fisico. Un esempio è quello del mito dell’eroe solare che sta a significare il procedimento fisico del sole che sorge e tramonta[13]; avviene quindi una traduzione del dato fisico in psichico. Questa potenzialità dell’archetipo che attraverso la sua manifestazione in immagine connette esterno ed interno trova un legame con un altro concetto junghiano: la sincronicità. Da Jung intesa come «coincidenza temporale di due o più eventi non legati da un rapporto causale, che hanno uno stesso o un analogo contenuto significativo[14]»; sta ad indicare la corrispondenza tra un determinato stato psichico con fenomeni che avvengono esternamente. C’è una simpatia tra interno ed esterno, un collegamento a-causale, si instaura con la sincronicità un’analogia psicofisica: ciò che per la coscienza è separato (psichico e fisico), nei fenomeni sincronistici viene unito. Un esempio, dal quale Jung che rimase impressionato, fu quello di una sua paziente che sognò l’apparizione di unoscarabeo d’oro. Nello stesso momento in cui la paziente raccontò la visione a Jung, sulla finestra comparve un insetto simile allo scarabeo d’oro del sogno. Era una Cetonia aurata, che si palesò proprio in quell’istante nella stanza terapeutica. Il comportamento sincronico è caratteristico dell’inconscio, quindi degli archetipi che diventando numinosi evocano nel soggetto stati psichici fortemente emotivi favorendo l’insorgenza di eventi sincronici. Il travalicamento dell’archetipo oltre lo stato psichico sta ad indicare per Jung il suo carattere trasgressivo[15]. Questa caratteristica trasgressiva si palesa non solo nella psiche del soggetto conoscente ma anche in tutto quello che viene conosciuto. Si crea un campo archetipico che si dispiega e che mette insieme le due realtà normalmente divise dalla coscienza ordinaria[16]. Infatti scrive Jung «l’archetipo è la forma del coordinamento psichico a priori, forma riconoscibile per via dell’introspezione. Se a questo si associa un processo sincronistico esterno, esso segue lo stesso disegno fondamentale, ossia è ordinato allo stesso modo[17]».
Erich Neumann nel suo saggio La psiche e i livelli di trasformazione della realtà. Un tentativo metapsicologico analizza il concetto di sincronicità, e parla a proposito di campo archetipico, inteso come la zona dotata di un linguaggio reciproco (dato dall’archetipo) che lega psiche e mondo. Secondo lui, l’individuo che riesce ad immergersi in questo campo (allontanandosi dall’Io) può sentire l’archetipo non solo attraverso l’introspezione (come ribadiva Jung), una pratica interna psichica ma anche attraverso l’estroversione, il guardare il mondo, visto che a questo livello di visione non c’è più differenza tra interno ed esterno[18]. Un esempio che Neumann cita riguarda il contatto tra l’uomo arcaico e gli uccelli come messaggeri che comunicano alla sua interiorità ampliandone la conoscenza[19]. Introspezione ed estroversione sono la stessa cosa. «In ogni apparizione dell’archetipico è compresa quindi, in pratica, non solo una realtà psichica interna, ma anche una realtà terrena esterna[20]».
Ritornando al concetto di archetipo, secondo la teoria dell’analista junghiana Jean Knox, sono riscontrabili varie espressioni (tutte valide) per definire sostanzialmente il termine archetipo:
informazioni biologiche che vengono trasmesse geneticamente dando istruzioni all’essere vivente;
forme mentali che non possono essere rappresentate, di natura astratta, contenenti precise regole;
contenitori di significato esprimibili e rappresentabili che agiscono direttamente nella nostra esperienza simbolicamente;
presenze metafisiche distaccate totalmente dalla nostra esperienza[21].
La concezione dell’archetipo può quindi variare a seconda dell’interpretazione soggettiva da come si preferisce descriverlo: questo suggerisce che è ancora impossibile teorizzare un concetto univoco della parola. La sua natura rimane oscura in quanto forma preesistente alla coscienza, precedente ad ogni concetto classificatorio definitivo. D’altronde la stessa etimologia della parola archetipo suggerisce una difficoltà di interpretazione. La prima parte (arche), deriva dalla parola greca arché che significa sia inizio, principio, origine ma al tempo stesso anche capo, supremazia: qualcosa che governa e che esercita un potere superiore[22]. Questa doppia significanza era stata individuata anche da Heidegger[23] che se ne occupò nei sui studi riguardo la fisica aristotelica[24] . La seconda parte del termine, typos, significa colpo, impressione visibile che rimane, oppure modello originario che fa da struttura basilare, appunto ad un tipo. L’archetipo essendo un tipo, un’impressione è qualcosa che si ripete continuamente e che ha origine: eppure questa origine al tempo stesso è una dominanza che la travalica. Ecco quindi la necessità di un’indagine dell’archetipoche sconfini dalla psicologia, come aveva fatto d’altronde Jung iniziando una corrispondenza con il fisico Wolfgang Pauli[25] o attraverso i colloqui di Eranos[26], in cui il concetto di archetipo e gli altri ad esso connessi (inconscio collettivo, sincronicità), venivano indagati da diversi ambiti di studio che ancora oggi sono motivo di ricerca.
Articolo di Edoardo Serini
[1] Carl Gustav Jung è stato uno psichiatra e psicanalista svizzero noto per aver collaborato con Freud, per poi distaccarsene fondando una sua corrente psicologica, chiamata psicologia del profondo o analitica, Cfr., Carl G. Jung, Ricordi, Sogni, riflessioni (Milano: Rizzoli, 2021).
[2] Douglas C. Youvan, From Freud’s Oedipus to Jung’s Archetypes: Tracing the Evolution of Psychoanalytic Theory (s.l: s.e, 2024), pp. 5-12.
[9] Erich Neumann (1905-1960) è stato uno psicologo e psicanalista Tedesco. Cfr.,Angelica Löwe, Life and Work of Erich Neumann: On the Side of the Inner Voice (New York: Routledge, 2020).
[10]Raya Jones, « Dialectics of Sign and Symbol and the Utterance of Archetype Theory», The Journal of analytical psychology 68, no. 4 (2023): 1-19, ˂ https://onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1111/1468-5922.12942˃ (10/10/2024).
[11] Jacobi, Complesso archetipo simbolo, cit., pp. 62-64.
[21] Jean Knox, Archetype, Attachment, Analysis: Jungian Psychology and the Emergent Mind (London: Routledge, 2003) citato in George Hogenson, «The Archetype Debate» in Jung and the Philosophy, ed. Jon Mills (s.l: Routledge, 2019), pp. 41-42.
[22] Jacobi, Complesso archetipo simbolo, cit., pp. 71-72.
[23] Martin Heidegger (1929-1976) è stato un filosofo tedesco esistenzialista. Cfr., Rüdiger Safranski, Martin Heidegger: Between good and evil, trans. Ewald Osers (Cambridge: Harvard University Press, 1998).
[24] Martin Heidegger, «On the being and conception of φyσiσ in aristotle’s physics B, 1.», Man and World 9 (1976) citato in George Hogenson, « The Archetype Debate» in Jung and the Philosophy, ed. Jon Mills (s.l: Routledge, 2019), p. 59.
[25]Cfr., Charles P. Enz, No time to be brief: A scientific biography of Wolfgang Pauli (Oxford: OUP Oxford, 2013).
[26] I colloqui di Eranos furono degli incontri e dei convegni iniziati nel 1933 da Olga Fröbe-Kaptey. Si tennero principalmente in Svizzera, ad Ascona, a cui parteciparono vari esponenti intellettuali dai più svariati campi del sapere come filosofia, religione, psicologia, biologia ecc. Tra i partecipanti si ricorda l’assidua presenza di Jung. Cfr., Riccardo Bernardini, Jung a Eranos: il progetto della psicologia complessa (Milano: Franco Angeli s.r.l., 2011).