Cosa significa, oggi, ricordare il 7 ottobre, la cui ricorrenza dai fatti del 2023 si è svolta lo scorso martedì? Qual è il significato politico della memoria qui in gioco, e che forma deve assumere e ha già assunto sinora, nei giornali, nei media, nelle voci di chi è sceso in piazza?
A poco meno di quarant’anni dalla sua deportazione nei Lager nazisti, Primo Levi ritornava su quegli eventi per analizzare, anzitutto davanti a se stesso, la composizione sociologica e psicologica che aveva dato vita e forma all’«universo concentrazionario»[1]. Davanti a se stesso, perché, come scrive sin da subito Levi, la memoria di chi ha avuto ruolo attivo o è sopravvissuto al genocidio partecipa sempre ad una qualche deformazione dei fatti. «Non esiste il buon testimone», scriveva Marc Bloch; e il lavoro dello storico attinge da questo precipitato di ricordi, lo filtra e setaccia per renderlo quanto più oggettivo possibile, ma senza poterlo eliminare. Da ciò deriva il significato politico portato con sé da ogni atto di rammemorazione, che esprime il fine e l’intenzione del ricordo, consci o inconsci, del suo racconto, e delle immagini associate ad esso.

Nel capitolo centrale dei Sommersi e i salvati, Levi riporta il giudizio che su di lui aveva espresso Jean Améry, intellettuale ebreo di origine austriache fuggito in Belgio per unirsi alla resistenza. Come molti altri, Améry venne presto fatto prigioniero dai nazisti e deportato ad Auschwitz, dove fu detenuto per circa due anni sino alla liberazione inglese del ’45. Agli occhi di Améry, Levi appare come un «perdonatore», perché disposto, a differenza sua, a riconoscere che gli eventi e le azioni dell’universo concentrazionario non rappresentano l’incarnazione di un’entità quasi metafisica – il Male radicale – ma una «trama» storica, che è possibile scomporre ed esaminare. Levi rifiuta l’accusa, che ritiene essere un fraintendimento: ciò che Améry scambia per volontà di perdono è in realtà la certezza che tale «trama» debba essere analizzata, osservata e raccontata dalla prospettiva degli attori in essa coinvolti, delle zone grigie di violenza, dai meccanismi psicologici che hanno consentito a truppe di SS di mandare al gas milioni di ebrei. Nel suo saggio, Levi si richiama di continuo a tale operazione, che coincide col costante tentativo di de-mostrificare i nazisti, e cercare – dietro la maschera di follia e male assoluto cucitagli dalla memoria seguita ai fatti – gli uomini in carne ed ossa, mossi da intenzioni, comandi, o, infine, dalla propria volontà. E questi uomini, scrive Levi, «erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso, ma erano stati educati male».
Spostare il giudizio dal piano della follia e dell’assurdo a quello della razionalità e della comprensione umana permette di allargare il quadro analitico, misurando anche gli elementi peculiari all’universo concentrazionario come parte di un processo più ampio, in questo caso un processo «orwelliano» interamente votato alla «falsificazione della memoria»: quello, appunto, del Reich millenario. Per un chimico, scrive Levi, è un’operazione quasi naturale. Gli elementi di base sono dati: si tratta di studiare le reazioni a cui rispondono certe azioni, i rimbalzi che provocano le trasformazioni molecolari, che pur non essendo calcolabili, ammettono un margine di previdibilità. Fuor di metafora, solo questo tipo di giudizio permette di riposizionare l’Olocausto entro un più ampio processo storico, senza farne né un’eccezione, né un esito già determinato. Ma ciò che conta è altro: dietro a tale istanza, diremmo, metodologica, la preoccupazione di Levi riguarda la ripetibilità del genocidio degli ebrei, come testimoniano le domande piene di angoscia che aprono il saggio: «quanto del mondo concentrazionario è morto e non ritornerà più, come la schiavitù e il codice dei duelli? Quanto è tornato o sta tornando? Che cosa può fare ognuno di noi, perché in questo mondo gravido di minacce, almeno questa minaccia venga vanificata?».
Come ha mostrato il politologo americano Norman Finkelstein, gran parte della narrazione che ha sostenuto e continua a sostenere il ricordo dell’Olocausto rovescia la ricostruzione tentata da Levi; anzi, ne rappresenta l’esatto opposto[2]. Come documenta Finkelstein, «fino a tempi abbastanza recenti l’Olocausto nazista era quasi assente dalla vita americana. Tra la fine della Seconda guerra mondiale e quella degli anni Sessanta, solo un esiguo numero di libri e di film toccò l’argomento». Furono ragioni politiche e ideologiche che avviarono il processo di costruzione della Memoria come, alemno in parte, oggi ci è tramandata, ragioni legate al dispiegamento della potenza militare di Israele in Medio Oriente nella guerra dei Sei Giorni (1967) che attrasse l’interesse americano per questo avamposto che poteva, ora sì, svolgere strategicamente una funzione antiaraba: «l’industria dell’Olocausto fece la propria apparizione solamente dopo la dimostrazione schiacciante del predominio militare e fiorì in mezzo al più totale trionfalismo israeliano». Non si nega qui la veridicità del genocidio, né la necessità della memoria associata ad esso; si problematizza piuttosto uno dei modi in cui è raccontato e ricordato, secondo il quale l’Olocausto non ha precedenti nella storia, e deve perciò «starne al di sopra». Esso domanda il silenzio. Esattamente per questo motivo, non può essere oggetto di spiegazione. Non solo: esso è incomunicabile, irrazionale, è il bordo estremo della metafisica e la sua chiusura, e perciò non ammette paragoni. «L’unicità dell’Olocausto è un assioma: provarlo è il compito assegnato, confutarlo equivale a negare l’Olocausto stesso».

Quanto accaduto in questi giorni ha confermato ulteriormente tale tendenza. L’indignazione mediatica, ormai vicina all’isteresi generale, scatenata dalle parole di Francesca Albanese sulla senatrice Liliana Segre ha per l’ultima volta riattivato il mito culturale dell’intoccabilità delle vittime dell’Olocausto, a cui non si nega l’esperienza né il dolore né la veridicità circa la testimonianza del genocidio da loro vissuto, bensì il diritto di avere l’ultima parola sul genocidio commesso da altri, siano essi ebrei o meno. È una questione tecnica, come lo è – dice giustamente Albanese – quella del malato oncologico, che per il fatto di sapere e soffrire del suo tumore non può, in virtù di queste esperienze personali, diagnosticarlo a sua volta. Di nuovo, questa forma di memoria culturale assolve la funzione ideologica di proteggere l’intoccabilità dello stato israeliano e di chi lo sostiene. In pochi, però, hanno in questi stessi giorni commentato le parole del Ministro israeliano per la diaspora Amichai Chikli, che ha definito Keir Starmer un “palestinese” dopo essere stato criticato da quest’ultimo per aver invitato in Israele l’attivista di estrema destra, nonché pluricondannato, Tommy Robinson; parole che andrebbero affiancate a quelle che riporta Levi (p.75): «Era comune a tutti i Lager il termine Muselmann, “mussulman”, attribuito al prigioniero irreversibilmente esausto, estenuato, prossimo alla morte».
Continua Finkelstein: «un corollario del dogma sull’unicità dell’Olocausto è che esso è il male nella sua unicità: per quanto terribile, la sofferenza di un altro popolo non si può neppure paragonare a esso». Occorre leggere la politica pubblica, mediatica, e, non occorre dirlo, militare di Benjamin Netanyahu in questi ultimi due anni (ma il discorso andrebbe esteso all’intera storia di Israele) alla luce di quest’affermazione. Non solo, come giustamente hanno sottolineato molti giornalisti, il Primo Ministro israeliano ha raccontato menzogne; egli ha tentato di costruire una memoria del presente interamente depurata dalla sofferenza dei palestinesi. La spilla che portava sulla giacca lo scorso 29 settembre, durante il suo discorso alle Nazioni Unite, munita di QR code collegato ad un sito web in cui sono raccolte le immagini delle vittime del 7 ottobre; le camionette mandate per le strade di New York, munite sulla fiancata dello stesso QR code; le immagini, mostrate in conferenza stampa dei bambini denutriti a Gaza, di cui Netanyahu denunciava la falsità fanno tutte parte, per riprendere le parole di Levi della «guerra contro la memoria» portata avanti da Israele, di questa «falsificazione della realtà, negazione della realtà, fino alla fuga definitiva dalla realtà medesima».

Le casse posizionate sul confine con Gaza, che trasmettevano in diretta ai palestinesi sotto assedio il discorso di Netanyahu, rappresentano l’apice distopico di questa politica, in cui la falsificazione della realtà diventa effettiva quando penetra della memoria di chi ne è vittima: proprio come nei Lager (sempre Levi) il sistema concentrazionario […] aveva lo scopo primario di spezzare la capacità di resistenza degli avversari», così in Palestina è stato necessario svuotare – attraverso la fame, l’occupazione, le colonie, le bombe, il genocidio – l’identità dei palestinesi, insediando in loro una nuova memoria.

Ma ciò non è accaduto. In tutta Europa e in tutto il mondo, questo processo di eradicazione del ricordo ha trovato nella memoria collettiva un ostacolo insormontabile.
«È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire. […] Occorre quindi affinare i nostri sensi, diffidare dai profeti, dagli incantatori, da quelli che dicono e scrivono “belle parole” non sostenute da buone ragioni». Ricordare il 7 ottobre, significa – per noi – ricordare le vittime israeliane delle stragi di quel giorno, ma anche ricordare che stava accadendo, ed è continuato ad accadere, quanto non doveva e non poteva ripetersi.
[1] P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 2007.
[2] N. Finkelstein, L’industria dell’Olocausto, Rizzoli, Milano 2004.
