L’interminabile fine della storia: Hegel a Gaza

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Questo articolo, di Elliot Dolan-Evans, è stato originariamente pubblicato su The Philosophical Saloon il 3 febbraio 2025 (visualizzabile qui). Ne offriamo qui una traduzione italiana su permesso della rivista originale. Ringraziamo la redazione di The Philosophical Saloon per la gentile concessione.


Riflettendo sugli ultimi quindici mesi, è divenuto quasi un cliché evocare la fine della storia, dal momento che abbiamo assistito allo svuotamento, e poi al collasso, delle fondamenta dell’ordine liberale internazionale. L’aggressione israeliana contro la striscia di Gaza ha ucciso almeno 47,500 palestinesi (cifra largamente ritenuta sottostimata), con i corpi recuperati quotidianamente dalle macerie fin dall’inizio del cessate il fuoco, e ha annientato le infrastrutture e le abitazioni. Non solo sitmate organizzazioni internazionali, esperti, accademici e avvocati hanno definito la guerra in Israele un genocidio contro i palestinesi a Gaza, questo periodo ha anche rivelato la totale insufficienza del diritto internazionale e la fragilità del “rule-based international order” a guida statunitense, che è stato smascherato (qualora non lo fosse già stato) come una struttura di totale impunità per la violenza devastante degli stati occidentali

È questo il contesto in cui molti accademici sono ritornati all’idea hegeliana della fine della storia. Il concetto è stato reso popolare da Francis Fukuyama in The End of History and the Last Man (1992) per comprendere il collasso storico degli stati sovietici e l’apparente “trionfo” della democrazia liberale. Questa volta, la “fine della storia” è vista nella guisa opposta rispetto a quella di Fukuyama: il collasso dell’ordine liberale internazionale post-bellico. In questo articolo, voglio esplorare il cuore del progetto filosofico di Hegel nelle sue Lezioni di filosofia della storia per interrogare il momento presente e domandare cosa esso può dirci sull’impasse circolare della storia mondiale oggi. Pertanto, tento di collegare gli orrori senza precedenti a cui abbiamo assistito a Gaza con un barlume di speranza per l’emersione di un concetto filosofico di libertà che era ascritto nel progetto di storia di Hegel – un’accoppiata improbabile a prima vista.

Riproponendo la domanda che Susan Buck-Morris ha posto con il suo fondamentale testo Hegel, Haiti and Universal History dobbiamo chiederci: perchè è importante porre un termine al silenzio su Hegel e Gaza? Questa è particolarmente importante come domanda poiché il corpus hegeliano è ricolmo di descrizioni indubitabilmente razziste dei non-europei (descrizioni che, come sostiene Hamid Dabashi, informano l’ideologia sionista) e perché possiamo accedere al lavoro di intellettuali palestinesi che offrono critiche nettamente più complete e urgenti del caos genocida israeliano, anche se Israele cerca di eliminarli. In questo articolo, io sostengo che Gaza, il luogo dove vengono compiuti i più odiosi crimini di quest’era, mostra limpidamente la rovinosa reiterazione del progetto hegeliano di una storia universale che in realtà non è mai esistita, con un progresso storico incapace di attuarsi al di fuori di forme tecnologiche fittizie che racchiudono una violenza apocalittica. Per formare la mia tesi, io colloco Hegel a Gaza come uno strumento euristico, così che si possa vedere – attraverso lui – una differente struttura e significato della storia che non solo sbroglia [unravels] il progetto storico hegeliano ma potrebbe anche redimerlo tramite una nuova prospettiva sulla storia universale – non semplicemente ponendolo, à la Marx, sulla sua testa ma situandolo in modo che possa ritrovare la testa e, forse, anche il cuore, entrambi sfuggiti a una cerchia di filosofi europei contemporanei.

È importante ripassare, brevemente, la tesi di Hegel nella Filosofia della storia. In termini generali, Hegel teorizza diverse fasi nella storia del mondo che, a suo avviso, si succedono l’una all’altra. È lo sviluppo dialettico della ragione umana a muovere il corso della storia, garantendo così la realizzazione dello Spirito (Geist), che può essere grosso modo inteso come una sorta di “coscienza collettiva”. Questo processo consente quindi il dispiegarsi della libertà, intesa come “essenza dello Spirito”. Come è stato sottolineato da numerosi studiosi, il “progresso” o movimento della storia in Hegel procede da Est verso Ovest, culminando nello stadio più “avanzato”, rappresentato dallo Stato secolare occidentale del suo tempo. È evidente che Hegel propone una gerarchia di forme culturali e modalità della coscienza che si succedono le une alle altre nel comporre la storia umana, in cui i popoli considerati “arretrati” sono superati dagli europei bianchi. Questo esplicito razzismo culturale [cultural racism] presente in Hegel — e più in generale nella filosofia idealista tedesca — ha da tempo fornito giustificazione ai progetti coloniali e all’imposizione della democrazia come crociata militare, il tutto con l’obiettivo di sviluppare la “ragione” nel Sud Globale. Come sostiene Susan Buck-Morss in Hegel, Haiti, and Universal History, lo schema storico proposto da Hegel è di natura teleologica: il mondo intero è destinato a perseguire un fine ultimo, quello della realizzazione della libertà — una visione ancora radicata nel discorso politico occidentale contemporaneo.

Nella Filosofia della storia, Hegel delinea un avanzamento della corso storico in cui lo Spirito viene costantemente consumato e distrutto per poi succedersi a sé stesso come uno più “esaltato, glorificato… più puro”; il che significa che ogni “fase” della storia supera dialetticamente (Aufhebung) la fase precedente in una nuova forma “elevata”, che conserva elementi del passato ma si presenta anche come un miglioramento progressivo. Così, quando osserviamo la storia retrospettivamente dal nostro punto cronologico attuale, finiamo per percepire la nostra epoca come il fine assoluto della storia secondo questa prospettiva hegeliana, come nota Žižek in Meno di niente (ed è per questo che l’espressione viene spesso ripetuta). Tuttavia, se portiamo Hegel fuori dalla Germania provinciale e lo collochiamo nel campo profughi di Jabaliya, questo racconto liberale del progresso storico si dissolve. Per quindici mesi, la cronologia del tempo è proseguita con la stessa certezza con cui sono continuati i massacri brutali, la distruzione degli ospedali e l’incenerimento delle scuole a Gaza (e oggi anche nel West Bank): più che progresso, la storia è sembrata un incubo ripetitivo dal quale nessuno riusciva a svegliarsi, riecheggiando le parole di Joyce in Ulisse.

L’evidente eurocentrismo di Hegel, unito con il razzismo culturale, gli permese di vedere un superficiale processo progressivo di Aufhebung dello Spirito nella storia. Nel 1806, Hegel scrisse al suo amico Niethammer meravigliato dalla vista di Napoleone Bonaparte che cavalcava a Jena, apprestandosi a sconfiggere il decadente Impero Prussiano. Nella lettera di Hegel, Napoleone personifica il movimento progressivo dello Spirito del mondo, con la storia che – da quel momento – si sarebbe evoluta tramite le legioni francesi. Uscendo di casa in mezzo alla sconvolgente devastazione del campo di Jabaliya, si potrebbe immaginare Hegel assistere al passaggio di una bomba Mark 84 da 2.000 libbre, fornita dagli Stati Uniti (una delle più mortali in uso agli eserciti occidentali, con un raggio letale di 350 metri) sganciata da un caccia F-16 israeliano, a sua volta fornito da Lockheed Martin attraverso una supply chain globale, su una scuola. È superfluo dire che concentrare l’intero apparato del potere militare occidentale su una struttura educativa che ospita perlopiù donne e bambini sfollati non riflette certamente una concezione di progresso. A prima vista, lo sviluppo tecnologico potrebbe essere richiamato come una forma di progresso in sé, ma il contenuto di tale feticismo tecnologico è una violenza barbara.

Infatti, dal punto di vista epistemologico di Hegel a Gaza, sarebbe impossibile vedere la “marcia in avanti” della storia o una qualsiasi altra forma di movimento progressivo. Nella sua immediatezza, Hegel assisterebbe al massacro dei palestinesi, all’incontrollata distruzione delle infrastrutture di sostegno vitale, alle truppo israeliane che separano uomini e donne per portarli in noti campi di prigionia, e l’esercito israeliano che riduce gli aiuti per generare carestia e condurre alla mortale ipotermia infantile. Nel tentativo di “pensare storicamente” durante questo momento in Gaza, il grande idealista tedesco percepirebbe solo una storia mondiale nata morta [stillborn world history] e compressa in un tempo ciclico, liminale e interminabile. Piuttosto che una marcia in avanti della storia, in questi eventi Hegel vedrebbe una serie di orrori compressi e resusiscitati (quelli del ghetto di Varsavia, di Srebrenica, di Abu Ghraib, del Bengala nel 1943, del Ruanda, della frontiera americana, di Fallujah della Seconda Guerra Boera, del 1945 a Dresda, della Nakba del 1948 e altre, incalcolabili, atrocità storiche); come se la storia fosse congelata, paralizzata nel tempo, incapace di svegliare sè stessa – con l‘ideologia coloniale [settler colonial ideology] che rinvigorisce continuamente sè stessa nell’espansionismo indefinito dei confini di Israele oggi.

In un contesto globale di policrisi e di emergenze ‘compulsive’, il genocidio di Israele a Gaza è l’aborto dell’idea di storia universale, e con essa dello Spirito, rimpiazzati da un susseguirsi ripetitivo di cicli di violenza storica, in cui il ritmo delle tragedie supera di gran lunga la capacità di comprenderle, elaborarle o capirle; non è l’impazienza per il volo della Nottola di Minerva a impedire la comprensione delle costanti tragedia a cascata di Gaza, ma il fatto che la nottola sia stata abbattuta da un proiettile esplosivo israeliano ‘Iron Butterfly’.

Anche le prospettive di Gaza nel tempo tradiscono un crollo in una negazione storica totale e compressa. In passato, le Nazioni Unite avevano segnalato che Gaza sarebbe diventata invivibile entro gli anni ’20 del XXI secolo. Oggi, in un perverso Deus ex machina, il genocidio di Israele sembra essere uno sforzo senza precedenti per trasformare quella previsione in realtà. Per il futuro, la visione di Netanyahu per Gaza è quella di una macabra zona di libero scambio generata dall’intelligenza artificiale, destinata a completare la cancellazione epistemica della “palestinesità” [Palestine-ness] di Gaza. Il passato, il presente e il futuro all’interno del genocidio israeliano sull’enclave sono, dal punto di vista del progetto filosofico di Hegel, deliberatamente congelati per negarle ogni movimento storico.

C’è un sentimento innegabile che “l’orizzonte del nostro mondo si stia ripiegando su se stesso”, come osserva Fabio Vighi, sia nella distruzione apparentemente ripetitiva (ma sempre più grave) dell’ambiente, che nella compressione di secoli di orrori storici nella minuscola enclave di Gaza. Come si può ancora intravedere un progresso della ragione umana con il passare del tempo secondo il progetto storico hegeliano? Quando Walter Benjamin descrisse a proposito del dipinto Angelus Novus, pensando esplicitamente alla tesi hegeliana della storia, l’immagine di un angelo che contempla il passato mentre viene spinto nel futuro dalla tempesta del progresso. Ma con uno sguardo hegeliano rinnovato, che constata chiaramente una paralisi della filosofia della storia, potremmo reinterpretare l’Angelus Novus come un angelo che guarda verso un futuro irrealizzabile mentre viene trascinato violentemente all’indietro nel passato. In un certo senso, non è forse questo il sentimento che ci suscitano oggi le meraviglie moderne di quel barbaro spargimento di sangue? Israele innova le più recenti tecnologie militari, come il sistema di puntamento AI Lavender — rappresentazione di un progresso del tutto vuoto e feticistico — per poi impiegarle nella forma più rozza e arcaica del massacro di massa.

Sulla base di quanto detto finora ci si potrebbe chiedere: che importanza ha, per la storia universale, una prospettiva hegeliana dall’interno del campo profughi di Jabaliya, nel mezzo del genocidio a Gaza? La risposta è che non si tratta di una visione particolare, bensì universale, come dimostra il legame tra questa storia universale abortita e l’idea, anch’essa in agonia, di libertà — il nucleo stesso dello Spirito. Il progetto hegeliano di una filosofia della storia non è oggi in stallo soltanto a causa della circolarità ripetitiva dell’orrore storico — una spirale che Hegel stesso osserverebbe direttamente nel campo di Jabaliya —, ma è stato anche compromesso dall’ostruzione dell’idea stessa di libertà universale.

Per Hegel, la storia effettivamente ‘finisce’ quando la libertà diviene accessibile per tutti, come sostiene Todd McGowan in Emancipation After Hegel. Nel 2025, sembra che siamo alla più grande distanza dall’universalità della libertà possibile. Che sia nei campi di uccisione automatizzati di Gaza, nelle strade occidentali militarizzate e autoritarie, nei vicoli di un’ineguaglianza senza precedenti, o tra le onde crescenti degli oceani del mondo, dove si può onestamente trovare un’idea reale di cosa potrebbe essere la libertà, per tutti noi, oggi? La nostra immaginazione concettuale è stata completamente pervertita ed erosa da secoli di violenza rapace del capitale e dai miraggi fuorvianti della democrazia liberale. Ciò che è orrendo realizzare non è che oggi la storia si è fermata, impantanata nella ripetizione circolare dei suoi episodi più barbari, ma che essa non è finita proprio perché la libertà è più lontana che mai.

Anche in questo stato così deplorevole, si intravedono bagliori luminosi di universalismo che potrebbero ancora realizzare lo Spirito attraverso una resurrezione della libertà. Uno dei compiti che Hegel si pone nella Fenomenologia dello Spirito è condurre la persona comune a vedersi non nella propria particolarità, ma come parte di un’umanità universale più ampia. L’individuo può superare la propria visione ristretta e particolare, che lo ancora alla sua vita immediata, solo assumendo una prospettiva più ampia, capace di riconoscersi nel movimento universale dello Spirito tramite la storia — il movimento della libertà verso qualcosa di diverso, verso una realtà liberata.

Leggendo questo riassunto del progetto hegeliano all’inizio dell’Ottocento, non è forse sorprendente quanto esso colga profondamente il senso del lavoro che il popolo palestinese compie ogni giorno nel connettere ognuno di noi, nel mondo, a idee universaliste di umanità, collettività e libertà? Documentando con rigore i crimini israeliani nella Striscia di Gaza (orrori che l’apparato politico e mediatico occidentale sarebbe ben felice di occultare), invocando instancabilmente la solidarietà internazionale, e opponendosi con risolutezza ai desideri fascistoidi del settler colonialism, giornalisti, lavoratori e cittadini palestinesi stanno incarnando quei valori umanistici e universalistici che sono al cuore del progetto hegeliano. Possiamo osservare questo lavoro, in tempo reale, liberare la coscienza globale dell’umanità collettiva — specialmente in un Occidente che ha dimenticato le condizioni violente della propria stessa esistenza — e catalizzare una disposizione morale dissonante rispetto ai principi ‘ufficiali’ che regolano le nostre vite, ma proprio per questo capace di aprire alla possibilità di immaginare cosa potrebbe essere una libertà collettiva: nei campi universitari, nelle marce oceaniche per la liberazione, o nei lavoratori che si rifiutano di servire la macchina della violenza.

Tornando a Susan Buck-Morss in Hegel, Haiti and Universal History, l’autrice sottolinea un punto di straordinaria attualità. In Occidente, assistendo alla violenza gratuita che si consuma a Gaza — trasmessa in diretta sui nostri telefoni e resa visibile proprio grazie all’impegno dei palestinesi stessi — si sprigiona un sentimento politico ineludibile: un senso di colpa che nasce dalla contraddizione lacerante tra la nostra idea di ciò che è moralmente giusto e i “principi che regolano quotidianamente il nostro mondo”. La verità del genocidio, evidente agli occhi di tutti grazie allo sforzo instancabile dei palestinesi, viene simultaneamente disconosciuta dai leader politici che traggono vantaggio dall’ordine costituito. Così, i nostri sentimenti morali si trovano in assoluto conflitto con l’obbedienza sociale. Come scrive Buck-Morss, rifiutarsi di compiere il proprio dovere sociale — cioè ignorare (o persino sostenere) il massacro di persone esattamente come noi a Gaza — significa diventare traditori della propria nazione. Ed è proprio per questo che assistiamo a una repressione tanto brutale nei confronti di chi osa parlare: che si tratti di studenti negli accampamenti, docenti nelle università, manifestanti per le strade o lavoratori nei luoghi di lavoro. L’universalità morale a cui fanno appello le azioni in solidarietà con i palestinesi si colloca nel “registro del negativo”: esse non sono “giuste” quando valutate secondo i valori ufficiali, ma infrangono il silenzio istituzionale che legittima lo stato di cose esistente. Si tratta di un approccio all’universalismo umano che valorizze le azioni collettive che esistono fuori ordine, rispetto ai racconti trionfalistici del progresso e della civiltà occidentali. Per noi in Occidente, per riprendere le parole di Angela Harutyunyan, “esiste un sentiero storico verso la futurità che è tracciato da coloro che vengono assassinati quotidianamente e da coloro che si rifiutano di morire, da chi resiste nei campi profughi, nelle università e nelle istituzioni artistiche, così come sotto le macerie della post-storia umanista liberale”. In questo senso, ciò che oggi appare come il punto di massima paralisi storica — Gaza — è, in realtà, il luogo in cui sta emergendo, in modo contraddittorio, una nuova e rivitalizzata idea di libertà: una visione che, citando Kant, “si apre su un futuro illimitato”.

C’è una profonda ironia che una lettura hegeliana della storia, osservata dalla prospettiva di Gaza, introduce nel cuore stesso del progetto classico di Hegel. Nella Filosofia della storia, infatti, per Hegel solo alcuni popoli potevano contribuire allo sviluppo della libertà: quelli ritenuti “popoli storico-universali” — vale a dire i bianchi europei colonizzatori. Inoltre, le condizioni della libertà si realizzano pienamente solo con la formazione di uno Stato. In questa luce, è ironico che oggi siano proprio i palestinesi — un popolo cui viene sistematicamente negata la possibilità stessa della statualità — a rivelarsi “storico-universali”: catalizzatori di collettività in tutto il mondo che ci offrono un barlume di cosa possa significare la libertà. Un popolo senza Stato, ma la cui bandiera è visibile in ogni angolo delle strade delle metropoli globali. Se, nella Filosofia della storia, Hegel annotava che “Abramo si spinse fino alla montuosa Palestina”, oggi non è affatto azzardato pensare che, stando al suo stesso metodo dialettico, egli scriverebbe dalla prospettiva del campo profughi di Jabaliya: riconoscendo proprio lì il sorgere di una nuova aurora dello Spirito.

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