L’intellettuale del plurilinguismo: un’eresia necessaria
Pier Paolo Pasolini non fu soltanto uno dei maggiori intellettuali italiani del Novecento: fu, con ogni probabilità, il solo ad aver incarnato contemporaneamente il ruolo di poeta, narratore, saggista, cineasta, linguista, e polemista, nonché di anticipatore di certe tendenze che abrennero caratterizzato i decenni italiani successivi; e tutto ciò in un secolo in cui l’intellettuale tendeva a farsi specialista o ad arrendersi al silenzio. Al centro della sua opera — tanto teorica quanto creativa — vi è un’idea ossessiva, antropologicamente fondata e politicamente radicale: la lingua non è mai solo un mezzo di comunicazione, ma lo specchio più profondo del mutamento storico, lo strumento attraverso cui un popolo si riconosce, si rappresenta o si aliena. Pasolini attraversa il Novecento ponendo la questione linguistica come nucleo della sua analisi culturale. Per lui, l’italiano è un terreno di battaglia, dove si gioca lo scontro tra l’antico e il moderno, tra la resistenza contadina e la nuova borghesia, tra la marginalità della borgata e l’egemonia del centro urbano. La sua proposta, lontana da ogni nostalgia retorica, è tuttavia una chiamata alla resistenza culturale: il plurilinguismo, l’ibridazione, la persistenza del dialetto come alternativa non arretrata, bensì potente, al nuovo italiano tecnologico e omologante che si diffonde nel secondo dopoguerra.
Il dialetto come forma di poesia e di ideologia
Fin dagli anni Quaranta, Pasolini rivendica con vigore la dignità estetica e politica della lingua friulana. Non si tratta, per lui, di scegliere un codice minoritario per esercizio estetico, ma di restituire una voce poetica a una lingua che, come il popolo che la parla, è stata storicamente marginalizzata. Il friulano di Casarsa diventa così l’equivalente novecentesco del volgare di Dante: una lingua che non ha ancora avuto i suoi poeti, e che attende qualcuno in grado di trasformare l’oralità in stile, la tradizione in tensione formale. L’Academiuta di lenga furlana, fondata con alcuni giovani poeti, non ha dunque nulla di folklorico. Essa è, piuttosto, un laboratorio militante, una rifondazione ideologica della parola. Nel suo celebre articolo Dialet, lenga e stil, Pasolini teorizza il rapporto tra lingua e stile, sostenendo che la lingua poetica, per essere autentica, deve derivare da un vissuto collettivo, da una oralità vera, e non da una finzione accademica. In ciò, la scelta del friulano è anche un gesto oppositivo nei confronti della lingua ufficiale, veicolo della cultura borghese e dell’omologazione linguistica promossa dall’industria culturale. In questa prospettiva, l’italiano non è un codice neutro: è la lingua della nuova borghesia postfascista, che domina economicamente e culturalmente il Paese. L’italiano nazionale nasce, secondo Pasolini, da un processo di imposizione che cancella le differenze, e che sostituisce i dialetti con un linguaggio tecnico, burocratico, standardizzato. Il dialetto, al contrario, è residuo vivo di un’umanità perduta, residuo etico, politico ed esistenziale.
Il canto popolare come resistenza alla scomparsa
L’interesse di Pasolini per il canto popolare si colloca all’interno della stessa linea critica. Il Canzoniere italiano (1955) è più che una raccolta: è un’operazione etnografica, un tentativo di salvare ciò che sta scomparendo sotto la pressione della società dei consumi. I canti contadini, le ninne nanne, le canzoni partigiane diventano così frammenti di una memoria collettiva minacciata dalla televisione, dalla pubblicità, da un’Italia che sta distruggendo sé stessa in nome del progresso. Pasolini non finge di idealizzare la cultura popolare. Egli sa che la miseria, la fatica, la superstizione ne fanno parte. Ma è proprio questa realtà, aspra e disadorna, che egli oppone all’artificio borghese e alla dolcezza fittizia della cultura ufficiale. In questo contesto si colloca anche il suo interesse per la canzone melodica e romanesca, che si manifesta in simpatia per cantanti come Claudio Villa, o nella presenza costante della canzone popolare nei suoi romanzi e film. È un’altra forma di resistenza: la sopravvivenza della voce del popolo nella città mutata.

Roma, la borgata e la discesa agli inferi
Quando Pasolini si trasferisce a Roma nel 1950, incontra un nuovo mondo, sconosciuto e tragico: quello delle borgate. In esso riconosce l’erede del mondo contadino perduto. Ragazzi di vita (1955) è l’opera che meglio rappresenta questa scoperta. Non si tratta semplicemente di descrivere la vita dei sottoproletari: Pasolini compie una vera e propria “catabasi”, una discesa agli inferi nella realtà urbana, dove l’unica salvezza possibile è la fedeltà al linguaggio. Il dialetto romanesco di borgata non è una scelta stilistica ornamentale: è l’unico strumento in grado di rendere il ritmo, la vitalità, la miseria, l’energia selvaggia di un mondo che la lingua nazionale non sa raccontare. L’italiano standard è escluso, perché mentirebbe. Il romanesco, invece, è “pressione” della realtà, è linguaggio vissuto. La lingua di “Ragazzi di vita” non è né quella del narratore né quella dei personaggi: è una lingua contaminata, dove la voce del narratore si piega al parlato dei ragazzi, fino a dissolversi in esso. È qui che la lezione di Verga si fonde con quella di Dante: la lingua è punto di vista, e l’autore, per raccontare la realtà, deve scomparire in essa. La lingua diventa il corpo stesso del racconto, e il narratore si confonde con i suoi personaggi non solo nel contenuto, ma nel ritmo, nella sintassi, nella materia verbale.

La Divina Mimesis: Dante e la lingua della verità
Il rapporto con Dante è, per Pasolini, strutturale. Egli non smette mai di considerarlo il modello assoluto: per la sua lingua sperimentale e plurale, per la sua vocazione etica e civile, per la sua capacità di dare forma poetica alla realtà. Pasolini cerca per tutta la vita una lingua che, come quella dantesca, sia capace di rappresentare un mondo intero, nella sua varietà, nella sua profondità, nel suo dolore. La Divina Mimesis, cominciata nel 1963 e inviata all’editore Einaudi poco prima della morte, è l’opera in cui questa tensione dantesca si manifesta in modo più esplicito. Non è una riscrittura, né una parodia della Divina Commedia: è un tentativo di restituire alla letteratura una funzione antropologica, conoscitiva, quasi sacra. La lingua, anche qui, non è semplicemente veicolo: è realtà. Nel testo, Pasolini si presenta come il nuovo Dante, ma senza più una guida provvidenziale: il suo Virgilio è egli stesso, o nessuno. L’inferno che visita non è ultraterreno, ma perfettamente reale: è la Roma delle borgate, è l’Italia del boom, è l’alienazione del consumismo, è il deserto spirituale del progresso. In questo viaggio, la lingua si fa magmatica, stratificata, disgregata: è un diario, una confessione, un manoscritto postumo. La realtà che Pasolini vuole rappresentare non può più essere contenuta da un linguaggio ordinato: deve essere detta con i frammenti, le rovine, le lingue perdute.
Il fallimento del plurilinguismo come lutto e profezia
L’idea che percorre tutta l’opera pasoliniana — dall’Academiuta friulana alla Divina Mimesis, passando per Ragazzi di vita e Una vita violenta — è che la lingua autentica sta scomparendo, e con essa la possibilità di una letteratura autentica. La civiltà contadina prima, quella del sottoproletariato poi, vengono travolte dal nuovo ordine borghese e capitalistico. La televisione, la scuola, la pubblicità impongono un italiano medio, standardizzato, tecnocratico, che elimina ogni diversità, ogni scarto, ogni voce.
