“Non-monogamia”, in senso generico, è un termine-ombrello che, come sosteneva Joan Scott a proposito del termine “genere” (agli albori del suo utilizzo), si configura allo stesso tempo come vuoto e sovrabbondante (Scott 1986). Prolifera, cioè, di definizioni e narrazioni spesso divergenti, ognuna delle quali trascina con sé un bagaglio estremamente specifico di modelli e pratiche variamente codificati e spesso lontanissimi gli uni dagli altri al punto da risultare, talvolta, persino antitetici. In linea di massima, quantomeno nel tentativo di fornire una definizione non esaustiva, parlando di non-monogamia possiamo genericamente intendere tutte quelle costruzioni relazionali altre dalla monogamia, che implicano la non esclusività romantica e/o sessuale, con il consenso esplicito di tutte le parti coinvolte.
Prendendo in esame tale definizione, l’elemento che sembra caratterizzare ontologicamente l’esperienza non-monogama pare essere proprio il suo esistere per negazione esplicita di una categoria conforme. Non è un dettaglio da poco. Definire la non-monogamia per negazione pone in evidenza un suo sostanziale vuoto epistemico e prasseologico, che determina di conseguenza la sua necessaria dipendenza dalla concezione, normata a normalizzata, di monogamia. In altre parole, la non-monogamia si configura come priva di contenuto specifico, sia in senso teoretico che pratico; appare, dunque, pensabile, narrabile e praticabile esclusivamente come opposto speculare e simmetrico della monogamia, assumendo quindi che la stessa esperienza monogamica si configuri necessariamente come univoca, non soggetta a interpretazioni.
Monogamia, prima di tutto
Del resto, la norma monogama è incorporata, impressa nella stessa configurazione profonda della società contemporanea; è tanto intimamente appresa da risultare praticamente invisibile, in quanto coestensiva della società stessa. Non ci richiede alcun particolare sforzo tassonomico, alcuna capacità immaginativa: la monogamia coincide con l’idea di amore vero (e di coppia) che apprendiamo lungo tutto il processo di inculturazione e siamo tutti in grado di indicare quali siano gli elementi che la caratterizzano. Esclusività, sessuale e romantica, e pretesa di durabilità. Ci si ama, profondamente e veramente, solo se non si ammettono altre interazioni sessuali e romantiche al di fuori della coppia e se la coppia pensa sé stessa come potenzialmente eterna.

Appare evidente che entrambi i più importanti marcatori dell’idea di amore vero non trovino effettivo riscontro statistico nella realtà, ma rappresentino, piuttosto, un’eccezione. Tuttavia, il fatto che la soglia di infedeltà nelle coppie sposate si aggiri attorno al 30% e che quasi la metà dei primi matrimoni termini con un divorzio non sembra scalfire in alcun modo la credibilità del sistema monogamo e dei suoi incrollabili pilastri fondamentali.
La teorica femminista Brigitte Vasallo, interrogandosi a proposito della definizione di monogamia nel suo testo Per una rivoluzione degli affetti: pensiero monogamo e terrore poliamoroso (Effequ, 2022), pone in evidenza come l’esclusività e l’aspirazione all’eternità, nel sistema monogamo, non siano pensate tanto come pratiche, quanto, soprattutto, come significanti espliciti di una performance, di uno schema di lettura dei ruoli «estremamente piatto e stabile» (Vasallo 2018, p. 39).
Si tratta, dunque, più che altro di modelli aspirazionali, di proponimenti che apprendiamo a proposito della costruzione relazionale e che intendiamo come necessari affinché una relazione di coppia risulti legittima. La “coppia” e gli “amanti” non rappresentano altro che idealtipi, tra loro non mutuamente escludenti, che solo insieme possono compartecipare alla costruzione della sovrastruttura monogama.
In altre parole, la legittimità di una coppia non è tanto determinata dall’effettiva fedeltà al voto di esclusività sessuale (e romantica), quanto dalla garanzia che, anche in caso di tradimento, la coppia manterrà la propria importanza rispetto agli amanti. A caratterizzare profondamente il sistema monogamo è dunque un’intrinseca gerarchizzazione degli affetti, che colloca invariabilmente la coppia (idealmente eterosessuale, coniugata, con figli) in posizione apicale. Come sostiene Vasallo, l’esclusività sessuale in questo senso non è altro che un «compromesso simbolico, il prezzo da pagare per acquistare questa legittimità: non andrò a letto con nessun’altra ma, in cambio, la nostra relazione sarà superiore alle altre» (Vasallo 2018, p. 42).
Alternativi, ma non troppo
In questo senso, dunque, il sistema monogamo sembra trovare posto anche per la sua stessa negazione. Relazioni sessuali oltre il vincolo di esclusività possono infatti essere ammesse, purché la gerarchia fondamentale (funzionale al sistema di produzione e consumo capitalista) non osi essere messa in discussione, purché la coppia monogama, cellula originaria del modello familiare nucleare, preservi la sua sacra e inviolabile egemonia. Anzi, nella più compiuta espressione della capacità del nostro presente di produrre micro-trend ad altissimo tasso di obsolescenza, facili da riconoscere e altrettanto facili da dismettere, questa non-monogamia, tutto sommato innocua e rassicurante, può essere narrata come un’estetica artificiosa, indossabile fintanto che risulta cool.
Potrà forse apparire come una scelta poco convenzionale, ma legittimarla appare tutto sommato semplice entro i margini tracciati dal principio cardine della modernità occidentale: la libertà negativa. Se proposta essenzialmente come scelta privata e concernente esclusivamente la coppia, la pratica non-monogama tende a inscriversi in una narrazione piuttosto specifica, che prevede rigorosamente una coppia iniziale, una cellula originaria e sempre gerarchicamente prioritaria. A tale unità fondamentale possono eventualmente essere aggiunte delle appendici accessorie, che suppliscano a determinate mancanze o a specifici desideri, dunque pensati in senso consumistico come elementi sempre incorporabili in un’addizione perpetua di enti discreti, tra loro sostanzialmente irrelati, o tenuti insieme da una relazione funzionalista. In questo senso, eventuali terzi associati alla coppia non sembrano poi troppo diversi dall’acquisto di una casa più grande o di un sex toy.
Come per incanto, se raccontato attraverso la semantica dell’utilitarismo, del privato e delle gerarchizzazioni necessitate (in altre parole attraverso il lessico proprio del tardo capitalismo), il terrificante kraken si trasforma in niente più che un ordinario calamaro. Certo, la non-monogamia sarà forse un po’ eccentrica, ma di sicuro è inoffensiva.
Viene quindi da chiedersi: può un assetto relazionale avente apparentemente a che fare solo con il privato, con lo spazio negativo di agency del singolo, o al più della coppia, offrire una riflessione che abbia invece un valore collettivo, che trascenda il solipsismo atomista in cui il tardo capitalismo e l’ipertecnologizzazione ci hanno precipitati?
Pane, amore e capitalismo
Dell’amore, sostiene Vasallo, siamo stati espropriati. È stato sottratto ai circuiti della vita contingente, dell’esperibile come per sé, della libertà positiva. In altre parole, è diventato oggetto di un processo di privatizzazione. L’amore è un fatto privato, in quanto appropriato dal sistema capitalista e ri-proposto sul mercato nella forma di rimedio alla solitudine, a patto che assuma specifiche configurazioni, funzionali a riprodurre il sistema stesso, in senso sia simbolico che materiale, nella forma di riproduzione della forza lavoro e rendendoci consumatori. Come già rilevato da numerose teoriche marxiste, si pensi ad Aleksandra Kollontaj, Emma Goldman e, più di recente, Mariarosa Dalla Costa, amare ci è concesso solo nella forma di aspirazione al matrimonio monogamo, che altro non è che cellula ri-produttiva fondamentale. Possiamo amare, purché amare coincida con l’ambizione alla costruzione di una famiglia nucleare, in cui il lavoro di cura è sostanzialmente femminilizzato e razzializzato; purché si facciano figli che a loro volta diventino consumatori e produttori. Possiamo amare, purché la coppia ri-produttiva, il nucleo fondamentale su cui la società è edificata, mantenga il suo privilegio ontologico, purché non amiamo nessun altro e in nessun’altra modalità. Possiamo amare, purché ci impegniamo a ricoprire specifici ruoli che afferiscono a specifiche gerarchie, essere il/la partner, il marito/la moglie di qualcuno. Possiamo amare così o essere condannati al deserto epistemico che circonda l’oasi verdeggiante della relazionalità monogama, sana, felice. O quantomeno questo è quello che ci è stato detto.
Il principio fondamentale, e radicato talmente in profondità da renderci impossibile immaginare alternative, risiede nella cosiddetta scala mobile relazionale; ovvero quel tragitto predeterminato e più o meno invariabile verso cui sono instradate due persone che scelgono di intraprendere una relazione monogama. Una sorta di percorso in salita a tappe prestabilite, attraverso il quale acquisire progressivamente una maggiore legittimità, sino a raggiungere la tanto agognata vetta, coincidente con lo statuto di partner romantico-sessuale stabile. Il ruolo più importante di tutti, tanto da rendere qualunque altro sostanzialmente trascurabile.
Vittoria, dunque. La garanzia di un futuro felice e al sicuro dalla possibilità della solitudine è stata faticosamente ottenuta. C’è tuttavia un prezzo significativo, in effetti costitutivo della stessa costruzione verticistica della relazionalità a cui tanto abbiamo aspirato. Gerarchizzare le relazioni significa isolare progressivamente l’individuo (e la coppia), privandolo di legami altri da quello tenuto insieme da un vincolo predeterminato di fedeltà intesa come esclusività sessuale e romantica. Non è contemplabile la possibilità di più amore perché, nell’ambito di una costruzione relazionale eminentemente verticale, equivarrebbe a dividerlo. E, coerentemente con il principio capitalista della scarsità delle risorse, dell’idea intrinseca che se qualcosa abbonda deve necessariamente svalutarsi, ne risulterebbe una sorta di inflazione degli affetti.
Il pensiero poliamoroso
La radicalità profonda, e profondamente sovversiva, della relazionalità non-monogama è proprio questo: restitituirci la capacità immaginativa di pensare un amore abbondante, straripante, e per questo condivisibile. Permetterci di credere che i legami e le connessioni che intrecciamo possano sopravvivere, crescere, fiorire in modalità e tempi propri, ridefiniti, riappropriati, anche laddove non inscritte all’interno di ruoli e prescrizioni precisi. Pensare poliamoroso, in questo senso, non ha nulla a che fare con l’eventualità di addizionare relazioni accessorie a una coppia pre-esistente, se quella coppia mantiene priorità ontologica e privilegio sociale.
Pensare poliamoroso è costruire una relazionalità che non può essere costretta entro i termini di una gerarchia verticista, ma si sforza di reinventare traiettorie e modelli innovativi, inesplorati. È la possibilità di concedersi di esplorare connessioni plurime, sempre in divenire e per questo non vincolanti ma sempre rinegoziabili in funzione del desiderio esplicito e dell’identità di tutte le parti coinvolte. Significa adoperare con criterio ruoli e definizioni, in una maniera che non risulti né prescrittiva né descrittiva, che non inquadri all’interno di un ordine di priorità predeterminato a partire dalle relazioni che il sistema ritiene debbano essere le più importanti (come la gerarchia che vige convenzionalmente tra relazioni amicali e romantiche). Apprendiamo così che come esseri umani necessitiamo di una rete di cura, di un contesto di capitale umano del quale sentirci parte: accogliamo la nostra vulnerabilità e quella altrui nella misura in cui dialetticamente stabiliamo e costantemente ridefiniamo modalità in cui validarla e prendercene cura.
Non pianeti, ma galassie
Questo tipo di pratica richiede certamente un lavoro esplicito e costante di negoziazione, uno sforzo emotivo che si disfi dell’habitus che abbiamo appreso, che ci narra l’amore romantico come onnisciente e tacito, tutto sentimento puro e sguardi carichi di senso. Ci chiede, al contrario, di ragionare esplicitamente, di esercitare dialetticamente il pensiero critico; ci invita a non siglare a priori un contratto relazionale standard con vincoli prestabiliti, ma di tracciare il nostro concordandolo esplicitamente, mettendoci in ascolto attivo di tutte le parti coinvolte.
Un amore pratico, che non abbia una configurazione consumista, ovvero dove siamo in grado di scorgere la profonda umanità dell’altra persona e legarci a lei oltre le conformità, per quello che realmente noi siamo e che scegliamo scientemente di condividere. Apprendiamo così che le relazioni, soprattutto romantiche, se pregne di un significato negoziato esplicitamente, non necessitano né di gerarchie, né di tappe o direzioni predeterminate (dell’amicizia, del resto, non ci chiediamo dove stiamo andando e se sia una relazione “seria”) e neppure di essere eterne per essere valide e importanti. Trovano valore in sé, nel tempo di qualità che si sceglie consapevolmente di condividere; nello sforzo immaginativo che si sceglie ogni giorno di compiere, insieme, per elaborare pratiche sostenibili, per pensarsi in relazione nel presente, prima ancora che ipotecare un eventuale futuro.
Oltre l’atomismo della relazione di coppia, il poliamore ci esorta invece a pensare invece tutte le connessioni che intrecciamo, qualunque sia il loro contenuto e la loro modalità, come una molecola. Accogliamo un amore multiforme, un multiverso. E se l’amor move il sole e l’altre stelle, allora l’innesto di rapporti che costruiamo non può che essere un’intera galassia, di infiniti corpi celesti, ognuno importante nella propria specificità, ma tenuto in orbita solo dal suo gravitare insieme agli altri