È possibile un nuovo realismo morale?

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Negli ultimi anni, alcuni dibattiti su temi tradizionalmente affrontati dalla filosofia, come libero arbitrio, coscienza e identità, si sono arricchiti di contributi provenienti dalle scienze naturali. Infatti, le nuove scoperte in questo campo ci permettono di reinterpretare e riconsiderare alcuni elementi cruciali all’interno di tali dibattiti. Per esempio, si fa sempre più massiccio l’utilizzo della risonanza magnetica funzionale per lo studio della coscienza, e ciò ha delle implicazioni teoriche.

Tra le scienze naturali, la biologia evolutiva rappresenta un elemento di svolta nello studio della filosofia morale e, nello specifico, nel dibattito sul ruolo dei principi normativi all’interno del mondo naturale. Com’è noto, è complicato conciliare il realismo morale con il naturalismo, intendendo, con quest’ultimo, la visione secondo la quale gli unici fatti di cui si può affermare l’esistenza sono quelli compatibili con i risultati della scienza. La versione realista più classica, di cui G. E. Moore è il campione, consiste nell’idea per la quale i termini morali si riferiscono a proprietà morali diverse da quelle naturali. È evidente che un’interpretazione come questa è difficilmente compatibile col naturalismo. Infatti, come si correlano i fatti naturali con quelli morali? Alcuni realisti, come Parfit e Scanlon, affermano che la conoscenza morale esiste indipendentemente dalla conoscenza scientifica, la quale, dunque, non è misura dell’esistenza delle cose. Altri realisti, più audaci, hanno cercato di ridurre i fatti morali alla natura.

Se questo discorso non fosse già problematico di suo, la biologia evolutiva, come si diceva, complica ulteriormente le cose. Infatti, i realisti si trovano di fronte a quello che Sharon Street chiama ‘darwinian dilemma’, e cioè ad un bivio tra una perdita della possibilità di giustificare le verità morali e rifiutare la migliore scienza disponibile. Perché questo? Da un punto di vista darwiniano, la selezione naturale ha plasmato le nostre abilità, tra le quali anche la capacità di essere guidati da norme, preferendo quelle che contribuivano maggiormente alla sopravvivenza. Dunque, non è stata la ricerca delle verità morali da parte dei nostri antenati a formare le nostre convinzioni morali, quanto piuttosto il fatto che queste convinzioni hanno favorito comportamenti che, a loro volta, hanno garantito una più efficace propagazione dei geni, per esempio attraverso la cooperazione e l’osservanza delle regole. Ciò per i realisti rappresenta un problema: come conciliare l’evoluzionismo con l’esistenza delle verità morali indipendenti? Per Street ci sono solo due possibilità: o si ammette un legame tra questi due elementi oppure non lo si ammette. Partendo dalla seconda possibilità, cioè che non c’è relazione tra spinte evolutive e capacità di giudizio morale, sarebbe letteralmente un miracolo se, comunque, grazie all’evoluzione fossimo capaci di vedere verità morali che con essa non hanno nessun legame. L’altra possibilità consiste nel rintracciare un legame tra questi due elementi. Però, questa ipotesi non regge ad una prova scientifica. La conclusione, per Street, è che bisogna rifiutare il realismo e rifarci ad una visione antirealista, come il soggettivismo morale.

Più recentemente, il dibattito si è ulteriormente arricchito, grazie al lavoro dello psicologo evolutivo Micheal Tomasello. Secondo lo psicologo evolutivo, gli esseri umani differiscono dagli scimpanzè e dai bonobo per la capacità di avere una ‘intenzionalità congiunta’, che consiste nell’abilità di formare uno scopo congiunto tra più persone supportato da un’attenzione condivisa e da diversi sotto-scopi individuali. Al contrario, gli scimpanzè avrebbero un rapporto sociale complicato, poiché le pratiche cooperative sono affiancate da una competizione serrata per il potere, il partner sessuale e il cibo: essi non posseggono un senso di equità, come dimostrano gli studi sulla caccia alla scimmia, o gli ultimatum games in cui le scimmie accettano tutte le offerte che non siano zero.

Ciò che separa noi umani dai primati non-umani è il fatto che oltre a comportarci secondo ciò che Tomasello chiama la ‘morale della simpatia’ (ossia la capacità, propria anche di scimmie e bonobo, di comportarsi in maniera lodevole con simpatia, per esempio aiutando qualcuno che si ama), abbiamo anche uno spiccato senso dell’equità, che costituisce il fondamento di ciò che Tomasello chiama ‘morale dell’equità’. Questa evoluzione è, secondo lo psicologo evolutivo, dovuta ad una serie di cambiamenti ambientali che hanno costretto l’Homo a cacciare cooperando. Il passo fondamentale è stato lo sviluppo della capacità degli esseri umani di poter prendere parte ad un’azione congiunta, cioè la creazione di un ‘noi’ da parte di due individui che agiscono verso un singolo fine. Ciò ha una serie di implicazioni: gli individui iniziano a selezionare il partner in base alla capacità di adottare questa prospettiva, cioè in base alla loro capacità di collaborare; diventa possibile un’autovalutazione del proprio operato dalla prospettiva imparziale del ‘noi’; emerge il senso del merito, ecc.

Successivo, poi, circa centocinquantamila anni fa, la moralità umana si adatta ai gruppi umani più grandi. L’intenzionalità congiunta si trasforma in intenzionalità collettiva e il ‘noi’ non è più la coppia che collabora per la ricerca di cibo, ma il proprio gruppo culturale. Si espandono i segni identitari per differenziarsi dagli altri gruppi e le norme culturali diventano i comportamenti ‘oggettivamente’ giusti. Dunque, la morale dell’equità e quella della simpatia vengono rivestite da uno strato di norme culturali che si diversificano da tribù a tribù.

La ricerca di Tomasello fornisce la possibilità di ripensare ad un realismo morale che sia compatibile col naturalismo. Facciamo alcune considerazioni. Un primo elemento riguarda il fatto che i nostri principi morali, equità e simpatia, sono condivisi da ogni essere umano e sono, dunque, universali. In secondo luogo, questi principi universali che tutti noi esseri umani possediamo non sono emersi perché sono giusti o perché abbiamo scoperto qualche verità morale oggettiva, ma proprio perché il contesto ambientale ha messo alle strette l’essere umano, il quale, per sopravvivere ha dovuto iniziare a cooperare. Visto che, simpatia ed equità sono elementi che stabilizzano la cooperazione, essi si sono rivelati fondamentali. Ciò vuol dire che, la comparsa di tali principi morali può essere fatta ricondurre alle spinte evolutive che li hanno causati e che, quindi, non c’è nulla di intrinsecamente buono o giusto in essi. Addirittura, si può immaginare che se le spinte ambientali ed evolutive fossero state diverse, ad oggi avremmo principi diversi. Ovviamente, da questo non deriva il fatto che tali principi sono unicamente strumentali: quando ci comportiamo secondo simpatia ed equità non lo facciamo principalmente perché essi funzionano, ma soprattutto perché sentiamo che è la cosa giusta da fare.

In questo modo, anche la morale avrebbe una fondazione che si accorda con gli studi delle scienze naturali e la normatività sarebbe ricollocata nell’ambito della natura. Questo significa che verrebbero evitati tutti quei problemi che notoriamente attanagliano le impostazioni realiste non-naturaliste, come il problema ontologico della normatività e quello epistemologico di come arrivare a conoscere le verità morali. Tuttavia, anche un’impostazione fondata sull’evoluzionismo della morale, presenta delle domande che vanno affrontate come, ad esempio, il tema del disaccordo morale.

Articolo di Marco Leo

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