Viviamo nello spazio, ma cos’è lo spazio? Diremmo forse che si tratta di ciò che togliamo, sottraiamo al riempimento visibile che ci attornia quando ci muoviamo, è ciò che resta – poca cosa – se potessimo privare il nostro cammino di quel che lo ostacola. Anzi, è il cammino stesso ma che circola a vuoto, spinto dal suo essere in atto: è quanto contiene il cammino.
Eppure, uno spazio vuoto fatichiamo a immaginarlo, a dar figura, e cioè contorno, e cioè confine e rappresentazione, ai confini e alle rappresentazioni che tratteggiano il profilo delle cose, che affiorano in questo grande contenitore dalla forma mobile ed elastica, o piuttosto senza forma. Di qui l’esigenza di classificare, catalogare, dare un nome agli spazi, studiarne la composizione e comporli in un’enciclopedia memonica o esperienziale, per riempire il vuoto che si apre quando portiamo all’estremo l’opera di sottrazione che scivola fino al puro spazio, allo spazio puro, alla bianchezza positiva dell’assenza.
Georges Perec ha esplorato ed esaurito questa varietà: la pagina, il letto, le pareti, la città, gli spazi inabitabili (il mare in tempesta), ognuno di essi ha struttura ed estensione diversa. «Viviamo nello spazio, in questi spazi, in queste città, in queste campagne, in questi corridoi, in questi giardini». Se immaginiamo il tempo come un fiume che scorre, è sempre condotto tra gli spazi che esso procede, cosicché potremmo forse sovvertire il suo solido primato sul ritmo dell’esistenza, lasciando che quest’ultima si distenda su di un’altra coordinata. «Vivere» – scrive appunto Perec – è «passare da uno spazio all’altro cercando di non farsi troppo male».
Ecco, che viviamo nello spazio «ci sembra evidente». E forse, aggiunge Perec, «dovrebbe essere effettivamente evidente. Ma non è evidente, non è scontato». Ha ragione: l’esperienza dello spazio è reale, (è un’esperienza), certo, noi viviamo nello spazio: ma non è altrettanto evidente. È un assunto che si manifesta quando il meccanismo si blocca, il movimento s’interrompe. Alla sua radice c’è una spinta alternativa: quella di farci noi stessi spazio. L’immobilità, il luogo che non scaccia, il profilo ricongiunto col suo bordo, quando il «passare da uno spazio all’altro» trova la sua stasi, è lì che vediamo per contrappunto ciò da cui lo spazio deriva, vale a dire la sua assenza. «Vorrei che esistessero luoghi stabili, immobili, intangibili, mai toccati e quasi intoccabili, luoghi che sarebbero punti di riferimento e di partenza, delle fonti […]. Tali luoghi non esistono, ed è perché non esistono che lo spazio diventa problematico, cessa di essere evidenza, cessa di essere incorporato, cessa di essere appropriato. Lo spazio è un dubbio: devo continuamente individuarlo, designarlo. Non è mai mio, mai mi viene dato, devo conquistarlo».
Accade in natura qualcosa di simile: il fenomeno mimetico. L’animale che cerca di aderire al suo sfondo non risponde ad un richiamo della necessità, non c’è nulla di utile o legato alla sopravvivenza (è con l’olfatto, non con la vista, che si caccia), in questo movimento di assimilazione. Eppure questa assimilazione è talvolta stupefacente, o, come ha scritto Roger Caillois, «leggendaria». Dalla superficie (la mantide che sembra una linea senza spessore, quando, immobile, ricalca le venature del tronco; la farfalla Kallima che non solo assomiglia alle superfici su cui si posa, ma le sue ali mimano quest’ultima nei più piccoli dettagli, dai puntini grigi simili al muschio, ai fori che sembrano i frastagli delle foglie), il mimetismo procede verticalmente sino al fondo della struttura morfologica (le uova dei fasmidi assomigliano a semi vegetali non solo esteriormente, ma anche nella loro struttura interna). È, dice Caillois, una lussuria pericolosa, che allude non tanto al bisogno di protezione o alla fuga dal predatore, quando a una tentazione spaziale, alla tendenza magnetica a lasciarsi assimilare dal dintorno e perdersi in esso.
La paura del buio nasce da qui. Nell’oscurità più totale avvertiamo una presenza anonima che pesa, che afferra e trascina i nostri bordi sfumandone violentemente i confini. Il soggetto è permeabile alla notte. In essa noi non ci troviamo. Come scrive Elias Canetti: «Vogliamo vedere ciò che si protende dietro di noi: vogliamo conoscerlo o almeno classificarlo. Dovunque, l’uomo evita d’essere toccato da ciò che gli è estraneo. Di notte o in qualsiasi tenebra il timore suscitato dall’essere toccati inaspettatamente può crescere fino al panico». La paura del buio è paura di essere toccati da qualcosa che non ha forma: il buio è pieno, raggiunge l’individuo, riesce, secondo Caillois, nel processo che spiega la mimesi animale: la depersonalizzazione attraverso l’assimilazione allo spazio.
Tale depersonalizzazione si accompagna al ritrarsi della vita e dell’esistenza personale, che dobbiamo ogni volta, uscendone, «riconquistare». Nella depersonalizzazione, la vita continuamente si blocca. Lo spazio divorante – che attrae e riporta a sé, verso il quale scivoliamo nella crisi o nel delirio – è la morte.