L’arte di Picasso secondo Ernst H. Gombrich

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Nella seconda delle conferenze raccolte nel volume Freud e la psicologia dell’arte, il grande storico Ernst Gombrich traccia un’affascinante genesi di uno più famosi quadri di Pablo Picasso, le Demoiselles d’Avignon (1907), indagando come si annodano la regressione e la creazione, l’informe e la forma, proponendo una psicologia dell’origine degli stili. Per l’autore, la storia dell’arte non è una storia di sovrapposizioni né di evoluzione progressiva, come nell’analisi del Vasari, ma di un «continuo estendersi e moltiplicarsi di simboli»1. In tal senso, l’intreccio con la psicoanalisi si pone non tanto nell’inconscio personale dell’artista, ma in un inconscio esteso, attraversato dai simboli che un dato tempo storico mette a disposizione. L’opera d’arte è un sogno condiviso tra l’artista e il fruitore che trascende chi lo produce. Gombrich cita una famosa lettera di Freud a Bréton, in cui il padre della psicoanalisi rifiuta di fornire una lista di sogni perché fuori dalle associazioni e dalla storia del sognatore sarebbero inutili. Le associazioni e la storia corrisponderebbero, si può dire, alle conquiste formali di una data epoca, ai problemi posti e risolti e alla sensibilità generale del pubblico degli intenditori. Lo storico riporta la teoria di Ernst Kris, per il quale:

[…] l’apparire di un atteggiamento verso la pittura che potremmo chiamare estetico – da non confondersi, cioè, con l’atteggiamento ritualistico – comporta un nuovo tipo di reazione, o come dice lui, di scarica. L’intenditore desidera identificarsi con l’artista; bisogna che varchi il cerchio magico e sia addentro alle segrete cose. Guidato dall’artista deve diventare creativo anche lui.2

Ernst Gombrich

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Gli stili cambiano, e anche repentinamente, nella misura in cui, al venir meno di un dato atteggiamento estetico, emergono spinte più regressive che, per l’espressione, muovono verso un cambiamento e alla ricerca. L’artista, o il grande artista, riesce a intercettarle e farsene veicolo. Il punto è che l’atteggiamento estetico, secondo Gombrich, prevede «un equilibrio necessario tra quello che potremmo chiamare l’attività estetica e il piacere “regressivo” nel senso psicanalitico della parola»3.

Freud, Gombrich
Sigmund Freud. Fonte: Hippopx

Per piacere regressivo possiamo intendere una scarica diretta, non mediata, degli impulsi pulsionali. Il suo paradigma è, non a caso, il “gusto”, ovvero il piacere orale. Quando l’equilibrio si rompe, emerge il disagio estetico. Le forme smettono di parlare attraverso i simboli e divengono vuote. L’informe può picchiare alla porta. Nella stessa conferenza, l’autore fa il curioso esperimento di mostrare le Tre Grazie di Bonnencontre, un artista dell’art officiel ottocentesca, attraverso una lastra di vetro ondulata. L’effetto rende il quadro quantomeno più interessante. L’immistione di informe produce un effetto estetico poiché, per l’autore, stimola il fruitore a partecipare al quadro, a incorporarlo e farsene incorporare, a sforzarsi di completare l’immagine: qualcosa di misterioso si fa opera. L’erotismo delle Tre Grazie è banale, poiché la forma, troppo perfetta, più perfetta delle immagini di Raffaello, pare non rimandare a nient’altro che a se stessa. La seduzione non scatta: la trappola è troppo facile. Il fruitore non è coinvolto nelle “segrete cose” dell’artista. L’impressionismo reagirà, storicamente, contro tutto ciò, fino alle vette dei grandi maestri del post-impressionismo (Gauguin, Van Gogh, Cézanne) che cercheranno vie di fuga stilistiche, e talvolta anche esistenziali, non a caso nel primitivismo e nell’esotismo (regressione).

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Come si arriva al prorompente bordello che Picasso raffigura, ispirato a quello in Carrer d’Avinyó a Barcellona che lui frequentava? Già bambino prodigio, figlio d’arte, il Picasso del 1905 ha uno stile meno aggressivo, più dolce, con figure esangui e preraffaellite (periodo rosa). La maestria con cui domina il mezzo tecnico è molto alta. Nel 1905 è la volta della mostra dei Fauves a Parigi e nel 1907 la grande retrospettiva su Cézanne. I padri del Novecento, come Cézanne, avevano portato una maggiore carica regressiva sulla tela, lasciando irrompere l’abbandono di quella precisione di rappresentazione figurativa già aperta dall’impressionismo. Le sue bagnanti avranno un’influenza capitale sul quadro di Picasso. La scelta del soggetto ha una grande valenza: la prostituta, per la sua epoca, è simbolo delle vittime della società. Puntualizza Gombrich, osservando i disegni erotici e gli studi preparatori del quadro:

È drammatico vederlo lottare, resistere al desiderio intenso di dipingere ancora una volta un’immagine di derelitti aggraziati; e vederlo eliminare ogni traccia dell’aneddoto e prefiggersi di creare qualcosa di più appassionato, di più selvaggio. Ed è importante notare come questi simboli non scaturiscono spontaneamente dal suo cervello, ma riescono ad articolarsi soltanto col contatto con cose viste.4

Ernst Gombrich

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Picasso, insomma, è bloccato in un conflitto, ma nella tensione di farlo sfociare in un’opera. L’esigenza di maggiore aggressività e dinamismo, la spinta a produrre del nuovo, che Picasso non riesce ad ottenere per i mezzi di cui dispone in quel momento, si articola e si arricchisce con le maschere nere e i feticci africani, in voga a quell’altezza storica. Non ultimo, proprio per la troppa maestria tecnica, Picasso si allontanerà per un periodo dalla pittura, dandosi alla scultura, in cui le manchevolezze lo porteranno a lavorare ed applicarsi. Tornerà alla pittura con tutta la carica informe del cubismo, in cui, per esempio nel 1913, una chitarra sarà fatta a brandelli, rimanendo una chitarra. Quello che ci interessa di questa analisi è la storicizzazione del simbolo annodato al processo creativo. Se il simbolo dà a pensare, nel senso di Ricoeur, è in virtù anche delle sue manifestazioni storiche, contingenti, legate a una certa società e cultura, che l’artista utilizza nelle sue regressioni per elaborare ed estroflettere i suoi privati conflitti, le sue esigenze, che, nell’opera d’arte, vanno a concretizzarsi sia nella rappresentazione sia nella fruizione, connettendosi e combattendo costantemente con ciò che è fuori dall’artista. Se è stato detto che l’arte è essenzialmente combinazione, è perché essa è la combinazione giusta che può fornire questa strana magia. Tra l’informe dell’Es e le esigenze d’integrazione dell’Io, passa un mare e una rete simbolica che unisce creazione e fruizione, privato e pubblico, personale, sociale e storico. Si può concludere, per riassumere, con questo lungo passaggio di Gombrich:

Sono convinto che l’artista può trovare una voce solo per mezzo dei simboli presentatigli dall’epoca in cui vive, ma ciò non toglie che la vera opera d’arte, evidentemente, è qualcosa di più dell’appagamento di alcune bramosie analizzabili. Qui ci troviamo di fronte non a un parallelogramma relativamente semplice di forze psicologiche, ma al più alto tipo di organizzazione. Qui dobbiamo postulare innumerevole spinte e contropunte, attrazioni e repulsione – a vari livelli e con una gerarchia di livelli – che resisterebbero all’analisi, anche se ne conoscessimo meglio gli elementi. Un centimetro quadro qualsiasi di un dipinto qualsiasi in uno stile qualsiasi può mostrare nei colori usati un cedimento a impulsi regressivi, e allo stesso tempo il dominio di quegli impulsi nella disciplina delle pennellate, la cui forza è tenuta in serbo per essere sprigionata al momento culminante. […] È l’Io che impara a tramutare e a canalizzare gli impulsi dell’id, e a unirli in quei cristalli multiformi di miracolosa complessità che chiamiamo opere d’arte. Esse sono simboli, non sintomi, di questa facoltà organizzatrice. È il nostro Io che, per risonanza, riceve queste figurazioni la certezza che la risoluzione di un conflitto, la libertà ottenuta senza nessuna minaccia per la nostra sicurezza interiore, non sono irraggiungibili dalla mente umana che aspira. 5

Ernst Gombrich

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  1. Ernst H. Gombrich, Freud e la psicologia dell’arte. Stile, forma e struttura alla luce della psicanalisi, Torino, Einaudi, 2001, p. 49 ↩︎

  2. Ivi, p. 53 ↩︎

  3. Ivi, p. 55 ↩︎

  4. Ivi, p. 66 ↩︎

  5. Ivi, p. 69 ↩︎

Mattia Giordano

Classe '95, milanese, laurea magistrale in Psicologia, appassionato di psicoanalisi, filosofia, teoria critica, letteratura per lo più italiana e francese. Anche di cinema e teatro, perché ci sono, e ci saranno sempre, film e spettacoli belli. Musicista e scrittore a tempo perso, si spera un giorno a tempo pieno. Ha fatto un po' di tutto, quindi, probabilmente, niente.

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