La morte costringe a ripercorrere la vita e, come si scriveva Heidegger, talvolta a “precorrerla” – e quella, recentissima, di Gianni Vattimo (1936-2023), a cui questa affermazione è sempre piaciuta, non fa eccezione: può così diventare l’occasione per porsi di fronte alla sua eredità nel modo in cui lui avrebbe voluto, vale a dire secondo una rammemorazione che riporti il passato all’insegna del futuro.
Chi era Vattimo? Anzitutto il filosofo dell’ermeneutica, presentata come koiné, ossia non limitata ad un capo del sapere (la filosofia o la teologia) poiché qualsiasi esperienza con il mondo si dà come atto interpretativo. Se questo orientamento, legato anche alla post-modernità di Rorty e Lyotard, ha conosciuto tanta notorietà lo si deve senz’altro alla sua portata etica. Infatti, l’ermeneutica di Vattimo si è posta fin da subito come una sfida al pensiero unico – nuovo volto del totalitarismo – ossia quella ragione che legittima se stessa rispecchiando un ordine oggettivo, il quale è sempre, in definitiva, un ordine di gerarchia e potere. Il pensiero è al contrario un pensiero “debole”, sempre in ascolto (e in conflitto) con le ragioni degli altri, nella consapevolezza che non possono essere soffocate da un unico orizzonte di comprensione. Questa è l’«etica dell’interpretazione»: una tradizione (anche altrui) accolta responsabilmente anziché dogmaticamente, in discussione e, soprattutto, rivedibile dagli interpreti sempre situati. Solo depositando la ragione assoluta si apre lo spazio del confronto tra interpreti: «la fine della verità è l’inizio della democrazia».
Il nesso tra metafisica e dominio così instaurato è stato per anni il baluardo per tutti coloro che non si riconoscono nell’idea, per Vattimo scientista e dogmatica, che la filosofia sia un discorso incontrovertibile. Ma non solo: l’identificazione della metafisica con il capitalismo e della ragione assoluta con il Washington consensus ha posto le basi anche per ripensare un «comunismo ermeneutico», cioè contro le pretese scientiste del comunismo sovietico e del marxismo, che pensava di rovesciare le ideologie dal punto di vista di un realismo non meno metafisico che materiale. Riprendendo l’undicesima celebre Tesi su Feuerbach, Vattimo afferma che il mondo ha cioè ancora bisogno di essere interpretato, e per quanto l’argomentazione razionale sia senz’altro preferibile, è solo nel conflitto tra interpreti che si fa esperienza della verità. La «vocazione terroristica dell’ermeneutica» ha reso quest’ultima critica anche nei confronti dei suoi stessi ispiratori, da Gadamer e Habermas, troppo influenzati dall’ottimismo borghese di una conciliazione di punti di vista, a Derrida e Foucault, la cui differenza per Vattimo «non fa alcuna differenza». Urbanizzare l’ermeneutica significa renderla innocua, mentre deve invece restare radicale.
Il vero punto di riferimento resta così Heidegger, la cui ontologia pone l’autentica sfida al pensiero unico e alla società tecnico-capitalistica. Ad Heidegger Vattimo ha infatti dedicato diversi lavori, pionieristici tanto quanto affidabili e – in pieno stile ermeneutico – altrettanto provocanti. Ha infatti fatto scuola l’interpretazione di uno Heidegger «di sinistra», latore (suo malgrado) di concetti alla base delle nostre democrazie, come Gespräch, Überlieferung e Auseinandersetzung. Ma è soprattutto con l’interpretazione dell’Ereigniscome un evento inoggettivabile e imprevedibile che Vattimo ha reso Heidegger un critico della razionalità calcolante e del principio di realtà, ispirando generazioni di studiosi. È inoltre sempre con Heidegger che la critica all’alienazione (da Marx ad Axelos) viene smascherata come la riconciliazione ad una natura umana romantica e metafisica, laddove il Dasein è invece costitutivamente «non a casa propria» (tesi oggi riproposta in questo senso da Rahel Jaeggi).
Su questa linea, Heidegger fu perciò nazista non perché antisemita, ma perché anticapitalista; anticomunista perché riteneva (a torto) che la Germania nazista fosse meno industrializzata e tecnicizzata dell’Unione Sovietica. Il suo errore, in ultima istanza: aver creduto, in un eccesso di storicismo, che le elezioni del ’33 potessero rivelare una qualche struttura oggettiva dell’essere, mentre non c’è alcuna realtà a legittimare le scelte, alcun contesto storico a determinare l’accadere. Da interprete, Heidegger ha semplicemente scelto (la parte sbagliata?).
E qui veniamo all’imprescindibile «interprete di Heidegger», vale a dire il pensatore che, paradossalmente, ne evidenzia gli aspetti insieme più radicali e genuini: né Husserl, Dilthey o Aristotele, bensì Nietzsche. È Nietzsche, secondo Vattimo, a dividere cioè «destra e sinistra heideggeriana» (divisione ancora attuale), perché, senza la sua rivoluzionaria lettura anti-classica della Grecità e il carattere fatale del nichilismo, è altrimenti facile scambiare Heidegger per un autore nostalgico dei Greci, che crede che l’essere come physis possa dissipare le nebbie di una «dimenticanza dell’essere» a questo punto umana, troppo umana. Al contrario, il nichilismo e «la morte di Dio» sono eventi epocali che vanno assunti nella loro serietà, valorizzandone, con Nietzsche, la portata emancipatrice. In maniera analoga, l’eterno ritorno dell’uguale non è, come credono Löwith e Deleuze, una restaurazione del tempo greco contro quello rettilineo del cristianesimo, perché, nota Vattimo, così si perderebbe il tema del morso del pastore dato al serpente, raccontato nello Zarathustra: si tratta piuttosto di assumere il proprio tempo e la propria tradizione, che, sì, costituisce, ma dalla quale si può non essere passivamente giocati se la si intende come possibile.
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Che cosa si può allora ritenere ancora possibile di questo vasto panorama della filosofia di Vattimo? Il tema del pensiero debole è forse quello che ha ancora tanto da dire, e sul quale si sono anche giocati più equivoci (complice anche l’immancabile vis polemica di Vattimo). Si tratta, anzitutto, davvero di un pensiero debole? Non sono infatti mancate riletture forti del pensiero debole, atte a proporre una teoria del (non-)fondamento, per cui sarebbe inevitabile la parzialità e la finitezza dell’interpretazione. Tuttavia, se i detrattori potranno agilmente intendere ciò nei termini di una verità assoluta (= è assolutamente vero che non c’è verità assoluta), esiste tuttavia un’altra strada, suggerita dallo stesso Vattimo, a cui queste accuse erano fin troppo note.
Vattimo afferma infatti che l’unica verità dell’ermeneutica risiede laddove la si intende come una risposta ad una storia dell’essere intesa a sua volta come nichilismo. A ben guardare, questa non è (più) una teoria dell’universalità dell’interpretazione, né sostiene che ci sono diverse prospettive, tra le quali si sceglie in base al proprio gusto. Si tratta piuttosto di seguire l’appello che, come nichilismo e Seinsvergessenheit, si apre al posto dell’evidenza apodittica. È un invito a colmare un vuoto? È un ripiegare su altro?
La ragione debole è stata per esempio accostata alla retorica e alla teoria dell’argomentazione (Perelman e Tyteca), le quali, pur essendone stata riconosciuta l’importanza all’interno di dibattiti non trattabili more geometrico (come quelli etico-politici), continuano nondimeno ad essere intese come discorsi di secondo ordine. Ma quando Vattimo scrive che, non essendoci né metalinguaggio né ragione universale, si può capire l’altro solamente condividendone la «forma di vita» (e qui il riferimento è forse più Pareyson che Wittgenstein), non sta esprimendo né un discorso di secondo ordine né esponendo una teoria del fondamento. Non ci sono ragioni forti per stare dalla parte dei deboli, se non essere deboli a propria volta – altra frase di Vattimo, nella quale la condivisione della forma e la situatezza dell’interprete si legano alla debolezza, dell’essere come degli ultimi (anzi: essere = ultimo), suggerendo che la parzialità dell’interpretazione accede ad una vera e propria verità, altrimenti incomprensibile alla ragione assoluta.
Perché “verità”? Perché, con Heidegger, è in grado di disvelareun mondo – il mondo degli ultimi – e, con Nietzsche, di rendervi possibile la vita. E se l’oblio dell’essere è il silenzio degli ultimi, com’è talvolta suggerito da Vattimo, allora si rende possibile una via sulla quale l’essere non viene equivocato dalla fragorosa gaiezza della physis né spacciato per una teoria trascendentale dell’apparire (“appare come ciò che non appare”), bensì resta un silenzio che invita all’ascolto – di nuovo, un nichilismo che non va cancellato ma domandato e compreso.
Articolo di Marco Cavazza