Personaggi:
A: giovane ricercatore;
B: professore associato.
A: Ora che siamo tra noi, ti dirò ciò che penso veramente del modo in cui viene fatta filosofia all’Università, e credo si tratti di qualcosa che forse anche tu hai provato e sentito, perlomeno un tempo, quando eri nella mia situazione.
B: Dimmi, sono tutto orecchie.
A: Ebbene, nell’Accademia la filosofia è morta e sepolta. Ci viene chiesto anzitutto di essere bravi nelle lingue – un ambito in cui, finalmente, è possibile vederci chiaro sul talento effettivo di ciascuno di noi – e in generale di sapere tutto fuorché filosofia. Storia delle scienze, etologia…guarda, ti ci metto dentro anche la logica: nulla di strettamente filosofico. Il che vuol dire: tutte cattedre che potrebbero benissimo stare in altri dipartimenti.
B: Sì, però scusami, mi pare che ci siano un po’ di fraintendimenti. Che vuol dire “strettamente filosofico”? Intendi filosofia teoretica, la “filosofia prima”? Perché in tal caso, ci sono le cattedre apposite. Sulle lingue, poi, mi sembra una questione forse troppo enfatizzata: quanti filosofi conoscevano più di una lingua?
A: Lascia perdere le lingue e anche la filosofia teoretica, che può essere presa ad emblema di questa crisi della filosofia universitaria soltanto nella misura in cui un limpido ruscello mostra per primo i segni dell’inquinamento. Io sto parlando di un fenomeno più profondo e pervasivo, che è già arrivato al mare aperto. È anzitutto una crisi del pensare, che si ripercuote inevitabilmente sulle aspettative della ricerca. Ma è proprio a partire dalla crisi della ricerca che vorrei discutere con te, tenendo questo più ampio problema sullo sfondo. Non esistono più questioni prime, ma solo di frontiera – interdisciplinari, cioè – che ci vengono imposte anche quando siamo noi che, apparentemente, le proponiamo, per avere il plauso dei commissari che approvano i finanziamenti dei progetti. Progetti che devono inoltre essere estremamente chiari, comprensibili, lineari. Così, tra le poche opzioni possibili vengono proposte ricerche dove autori vengono accostati senza alcun criterio. Le influenze, ah che gran cosa. “X lettore di Y”. È, poi, una manna se ci si occupa di qualcosa di ancora vergine: tante volte basta questo fatto, per godere del plauso della comunità scientifica. Mettiamo anche il caso di un argomento complesso (non troppo, però): ecco che si dirà “lui si occupa di X, è (quindi) estremamente bravo”, senza che si entri nel merito di come la ricerca venga poi effettivamente portata avanti. Basta questa soglia di sufficienza, questa superficialità, per essere subito ben visti. Ci sono temi, non prospettive: niente di profondo.
B: Mi sembra però chiaro che stia ad un buon supervisore vigilare su questi aspetti, no? Sapere che X leggeva Y, per es., può servire per decifrare un concetto finora oscuro: un’operazione più che legittima.
A: I supervisori? Davvero ne vogliamo parlare? Gente senza un briciolo di interesse. Manco se la ricordano l’ultima volta che sentirono l’urgenza per qualcosa, la paura. Curano i loro contatti, quando esistono, e finita lì. Andare in profondità significa rischiare, azzardare, mettere in gioco tutto, la propria credibilità; le forze vanno amministrate nel giro di anni, decenni, se non addirittura secoli: oltre la propria comoda e borghese carriera.
B: Non è sempre così, e comincio a sentirmi offeso: io vigilo sui miei collaboratori, come mi piace chiamarli, e loro ne sono contenti. Ci tiene insieme la passione per la ricerca, qualcosa che manca nel tuo schema tra “tema/come lo si affronta”. Inoltre, non credo che lavorare e pensare sotto la spinta dell’urgenza sia un buon modo di fare filosofia. La paura non è, insomma, l’unica emozione: c’è anche la gioia della condivisione, che riflette il senso e l’ampiezza dell’impresa scientifica. Fuori dalla comprensibilità, mio caro, siamo perduti; non c’è nulla oltre il comprendere. Ti vedo scuotere il capo, ma lasciami aggiungere ancora una cosa sui relatori: il fatto è che – mettiti nei loro panni – se non possono garantire assegni post-doc, è chiaro che allora le ricerche, anche lunghe, come quelle di dottorato, si arenano. Io non posso, cioè, assegnare incarichi così complessi e profondi, perché mi mancano i fondi. Non sono, insomma, la fonte della disaffezione e della superficialità!
A: E le lezioni, allora? Anch’esse sono sintomo di un problema più esteso. Le lezioni a cui assisto sono fatte bene quando, a dire il vero, sono delle grosse spiegazioni, in cui il pensiero di tizio viene presentato in modo sistematico (e va da sé che dove questo non può succedere, allora non si ha a che fare con un grande pensatore); spiegazioni, dicevo, come affreschi, monolitici blocchi da imparare e prima ancora da ascoltare e recepire.
B: Scusa se ti interrompo, ma qui non ci vedo nulla di male…
A: Già, nemmeno io, voglio dire: sono molto piacevoli da ascoltare, e lo studente è soddisfatto quando si trova di fronte a queste solide lezioni, ma proprio in questo piacere si nasconde l’insidia che tutto si trasformi nella ricezione supina di un discorso da apprendere e ripetere. Oggi più che mai gli studenti vogliono certezze, anzitutto per aver intrapreso una carriera così vaga sulle prospettive d’impiego. O, che è lo stesso, una carriera che, almeno, piaccia – vedi: è sempre in fondo un discorso di piacere, perché questo è: un oggetto di consumo – per lo studente.
B: Insomma, ci sarebbe quindi un problema più generale, che comprendo a grandi linee, ma che ancora mi sfugge, e uno invece più estetico…
A: Partiamo da questo. Chi fa ricerca deve piacere. Parlo di qualcuno sciolto nelle lingue, con contatti, che si sposta e viaggia (sradicato: il suo paese gli è sempre stato stretto); parla bene, senza esitazioni o accenti, perché, in definitiva, non ha smania di doversi prendere il mondo con la forza: è già suo. Persone senza urgenza, senza necessità. Gente che vive all’insegna del possibile, delle occasioni. Ad un convegno non vanno a discutere di ciò che tiene in piedi la loro esistenza, ma a stringere contatti. Gente che impara, capace. Non hanno tesi da difendere, non devono difendersi da chi toglierà loro il posto, da chi minaccia di imporsi in forza soltanto della prepotenza, del parlare secondo mode, perché sono loro stessi modaioli. Sono, a dirla tutta, persone boriose, anche quando sono umili. Solo apparentemente si mettono in discussione: “mi chiedevo se…”, “si tratta di un punto su cui devo ancora lavorare”, ma poi non approfondiscono, e a fine convegno non vengono da te a discutere della tua domanda – che non hanno capito, e, guarda un po’, non è successo niente. D’altronde, è una gran cosa, no?, guardare alla persona anziché a ciò che dice e sostiene. Voglio dire, ci sono le persone, prima ancora delle loro idee. E i professori? Stravedono se nel tempo libero questa gente scala, se fa sport, o passa giornate a dipingere miniature. Tutti gli hobby vanno bene – anche se meglio quelli costosi – purché non si chiudano a studiare. Per carità. La vita è là fuori, insomma. Famiglia, sport, amici, “l’ornitologia è la mia passione”. E quando leggono, non possono aver letto un unico libro: leggono infatti un mucchio di cose, senza discuterne i contenuti – per forza! Sfornano libricini e articoli dove non fanno che ripercorrere i ragionamenti dei propri autori, spesso fornendo discutibili doppioni, collegando e mettendo insieme. “Questo concetto di X mi serve per provare a pensare quello che Y dice”: è questa l’utilità dell’influenza di cui mi parlavi? Suvvia…operazioni concettuali ridicole, astruse e senza senso, problemi affrontati da autori fino a ieri ritenuti minori per più di una ragione – oggi tutte dimenticate – quando basterebbe evincerli alla radice. Quando basterebbe impegnarsi sulle questioni importanti.
B:…e qui mi sembra che siamo tornai al problema propriamente teoretico.
A: Certamente. Non sai quante volte, rispetto al mio lavoro, mi si è chiesto “ma in che modo leggi questo concetto?” Vogliono sapere la mia etichetta, capisci? Così da risultare comprensibile. “Lui interpreta X al modo di Y”. Ma io non voglio rispondere, anzi non posso, e non soltanto perché tutte le etichette oggi a disposizione non sono all’altezza dell’ultimo dei filosofi. Di fronte ad un testo, non sappiamo più come muoverci. Cosa scrivere. E allora giù di influenze, di confronti. Il metodo storiografico è l’unica risorsa che si offre al lavoro. Altrimenti, dicevo, ripetiamo quanto leggiamo, complicando inutilmente il semplice e lasciando irrisolto il difficile. Vorrei che la gente smettesse di nascondersi dietro autori da quattro soldi…e anzi, vorrei che smettesse di nascondersi del tutto. Sogno un libro senza bibliografia.
B: Un libro senza bibliografia, dici… tu parli non solo di un lavoro deliberatamente non scientifico, ma di un testo che sia coraggioso, in un senso ben preciso anche. Tu cerchi qualcosa che sia postumo, per le generazioni a venire. Stiamo parlando di martiri, ricercatori che sacrificherebbero la loro carriera – la loro immediata comprensibilità – in nome di un ipotetico successo futuro. Le nostre vite, oggi, valgono tuttavia troppo per un simile compito: chi mai oserebbe rischiare tanto? Se non, di nuovo, qualcuno che potrebbe permetterselo?
A: Oppure, gente che non ha nulla da perdere.
B: Ma tu, sei sicuro di non avere nulla da perdere? Lascia che adesso ti dica io qualcosa. Hai parlato di etichette. Io l’ho letto, il tuo ultimo lavoro. Profondissimo, difficile, estenuante. Tutta la letteratura spesa sul tema è ridicola, al tuo confronto. Bravo. Ma pensi forse che per questo la gente che già se ne è occupata trema per la propria cattedra? O il proprio prestigio? Che si senta minacciata, e che gli “altri” – i non addetti ai lavori – possano dunque sollevare dubbi sulla loro attività scientifica? E il tutto, naturalmente, posto che qualcuno abbia letto, e capito, la tua monumentale opera. Le opere filosofiche di cui parli non confutano punto per punto né si lasciano in tal modo confutare. Quando uno legge un testo, guarda all’insieme, non al dettaglio, senza che per questo ci si occupi di etichette. Mio caro, quando tu parli di necessità, sei il primo ad abbassare la filosofia su un piano non filosofico, fatto cioè di arrivismo, cattedre e scontri tra studiosi. Sai qual è il tuo grosso errore? Credere che l’Accademia abbia mai giocato qualcosa nella partita della filosofia.
A: La fai facile, tu! Io devo lavorare in Università, perché non ho altri ripieghi. Nessuna famiglia, nessuno sport o hobby. Non posso permettermi altro, e quello che potevo l’ho sacrificato. Per me Università e filosofia coincidono perché non si tratta di fare un lavoro come un altro: io sento il fuoco della necessità, e non posso abbracciare nessun altro impiego che non sia condotto sotto questo criterio. Io sono chiamato a difendere non già verità, ma un modo di pensare che non può essere dismesso: perirei, e con me l’intera umanità a venire. Lo so che sono ridicolo a fare questi discorsi, ma come ho detto non ambisco ad essere un “interprete raffinato”, una persona “ironica e distaccata”. Detesto questa gente: borghese e senza spinta. Io non sono come te, venuto al mondo tra mille possibilità, e avendo scelto quella che più mi aggradava – la carriera accademica. Io brucio dal fuoco della filosofia.
B: …e speri che a bruciare con te sia tutto il resto. Ma non è così che funziona. La fisica, che tanto disprezzi, ti insegna che non c’è fuoco se non c’è combustibile. E prima hai parlato della storiografia come materiale, risorsa: ti serve questa, se vuoi fare il piromane. Tu non capisci che la vera sfida non è raggiungere l’abisso, l’ambito insondabile del pensiero, perché si tratta piuttosto di saperne uscire. Il fuoco che tutto irradia e scalda, preso di per sé, consuma e brucia: altro non fa. La vera sfida è ridiscendere nella caverna. Si tratta di diluire quel chiarore, ciò che è buio e profondo perché acceca e toglie la vista. Bisogna scegliere la comprensibilità per questa ragione, la quale, credimi, è una ragione esistenziale. Altrimenti, seguirai il cammino di quanti dicono che della filosofia non si può parlare, perché bisogna viverla. Che restiamo in silenzio, o in cammino, e che allora tanto vale fare il professore o l’imbianchino (ma mai l’impiegato). Sono queste, le sciocchezze; è gente che getta la spugna, alla quale, se permetti, preferisco di gran lunga quanti fanno uso di etichette e scrivono in modo modesto – ma scrivono, cercano cioè di attraversare quell’abisso, per poi raggiungere l’altra parte, che è la nostra parte. Tu dirai che sono anche io un borghese a ragionare così, ma non c’è rivoluzione efficace che non passi per le istituzioni. La scientificità può essere un’arma al nostro servizio, non qualcosa da rigettare acriticamente – così la si consegna infatti al nemico.
A: Capisco.
B: E ti dirò un’altra cosa. Quando mi capita di leggere un testo che, come il tuo, corregge la lettura che finora si è data di un certo filosofo, mi chiedo in fondo: ma quindi? In modo superficiale abbiamo letto X come Y, quando invece X è Z. (E, lasciamelo dire, in alcuni punti dici che X è uguale a X: giustissimo, ma quindi?). Quanto fa la differenza, e quanto, invece, si tratta di un dettaglio – un dettaglio che un occhio fine e acuto ha scorto, va bene, ma comunque: un dettaglio. Non mi dirai che adesso tu sei diventato un paladino della correttezza testuale, dell’aderenza dell’interpretazione?
A: Certo che no. Nello scandagliare in profondità, io volevo anzitutto restituire un modo di filosofare che si lasciasse alle spalle prese di posizione acritiche. Gente che passa sopra i testi per enunciare le loro improbabili ipotesi – tutte letture semplicistiche, di comodo. Grandi affreschi, appunto, che magari strizzano l’occhio a cose per le quali, neanche troppo misteriosamente, la nostra Accademia ha un debole, come le questioni teologiche o la critica all’obiettivismo – dogmi da un lato e dall’altro. Si demanda ad altri, che siano dèi o esseri umani: tutti ignoti. Io critico e demolisco, mentre qualcun altro costruirà – ma così non funziona. È ormai diventato troppo comodo criticare, non è più un’impresa coraggiosa, necessaria.
B: Ma, allora, non capisci la contraddizione in cui ti trovi? Prima vaneggi di un libro senza bibliografia, e adesso mi parli di aderenza testuale? Lo vedi che sei accecato dalla furia distruttiva? Ora, il punto è riconoscere che l’autodistruzione è provocata dalla stessa dimensione abissale in cui tu ti ostini a restare. Se a un certo punto i tuoi superiori ti chiedono “bella, sì, ma che vuole dire questa precisazione che finora ci è sfuggita?”, non li puoi biasimare. Ciò che io chiamo “significato culturale” è questo: qual è il senso dell’operazione che fa valere tal filosofo? Tu sei concentrato sull’operazione, e sostieni che se non la si è compresa si travisa ogni altro possibile discorso. Potrei anche darti ragione, ma capisci che non ciò non basta. Non puoi ridurre tutto questo a superficialità: capire il senso che sta dietro un testo è più importante che incagliarsi sui dettagli: è questa la differenza tra filosofia e storiografia.
A: Ma questo è proprio il senso della fenomenologia: attenersi alle cose stesse, alle questioni. Il significato culturale, come lo chiami tu, è la morte della filosofia fenomenologica. È schiacciare un piano predeterminato sul libero movimento del pensiero.
B: Non sono d’accordo su questo punto. La visione più ampia non deve necessariamente essere predeterminata. E tu riduci, inoltre, la fenomenologia all’empirico: diventi a tua volta uno scienziato che si attiene ai dati di fatto – ai testi. Nel discutere questo rapporto con la scienza, è vero, si gioca il destino della fenomenologia. Ma, forse, se “filosofia” è parola più grande e più antica di “fenomenologia”, allora forse verrà anche il momento in cui si dovrà abbandonare la fenomenologia, perché troppo stretta. Del resto, l’essere è sempre essere dell’ente, no?
A: No. Vedi? Quando tu usi questa formula, l’essere è essere dell’ente, fai cadere il discorso, quando invece si dovrebbe scendere nelle profondità che si celano. Perché ci sono queste profondità, che vanno sondate e, come hai detto, non vanno taciute. Ma nemmeno ci si riferisce ad esse per poi distogliere l’attenzione e rivolgersi ad altro. La visione predeterminata, in questo caso, è ad es. leggere l’essere dell’ente come una dichiarazione di immanenza. Ma che significa? Che cos’è quel “dell’ente”? Se si revoca questa formula, opaca e inutile, ecco che tanti discorsi si evincono alla radice.
B: E sia. Ma come evitare il rischio che si tratti allora di un girare nel vuoto?
A: Non si può evitare, infatti. La filosofia è questione di rischio, di fallimenti clamorosi prima ancora che di geniali trovate. Non è un campo per acuti interpreti, eruditi lettori o chessò io. Forse hai ragione: non è cosa per professori, né discorsi per studenti. Noi dobbiamo rispondere a questo appello, non ai bandi di finanziamento.
B: Bene, d’accordo, ma la spinta rivoluzionaria, la terra nuova che vuoi toccare, lo scossone che cerchi – per quale motivo, oltre ad un’esigenza esistenziale (o esistentivo? Tutto troppo esistentivo) – ebbene, dicevo, non c’è novità nell’abisso. Non c’è rottura, per chi si attiene all’abisso, che è sempre tale dalla nascita del pensiero. La rottura è tra i due estremi, tra due sponde, senza le quali, oltretutto, un abisso non esiste. E perché non credere che l’appello a cui siamo chiamati, storicamente, non sia proprio quello di riflettere su questi finanziamenti, oltre che a riflettere a partire da e grazie a questi finanziamenti?
A: Quello che stai cercando di dire, è che l’essere, come abisso, richiede comunque qualcosa – l’ente – rispetto al quale stagliarsi nella profondità?
B: Esattamente.
A: Mi viene allora in mente un’immagine, alla quale possiamo forse affidare le nostre riflessioni sul rapporto tra i vari modi di fare filosofia di cui abbiamo in parte discusso, nonché la dimensione sociale entro cui avvengono. C’è chi sente di scendere nell’abisso, fino a consumarsi. Forse non pubblicherà nulla, ma dubito che si astenga anche dallo scrivere. In questa operazione, esplorerà qualcosa di antico, conosciuto da molto tempo, e insieme inesplorato. Altri cammineranno sul percorso che ha aperto. Forse lo continueranno pure. Altri invece saranno incaricati di fare ritorno. Cosa diranno? Porteranno il fuoco e incendieranno le comode dimore di chi ha scelto di restare? Si limiteranno a fare luce, magari al modo di quei rifugi che di notte, sulle montagne, sembrano vicini, per quanto invece separati da intere vallate? E quanti altri attori, in questo scenario di partenze, migrazioni, insediamenti?
B: Mi sembra una buona immagine, sì, che pone molte nuove questioni. Cosa significa, tutto questo, fuori di metafora? Cosa farà, chi torna? Testimonierà, racconterà, istituirà? Che ruolo è giocato, dall’Università, in tale scenario? Ci opporremo? Saremo, cioè, coloro che spingeranno questi esploratori degli abissi al sacrificio? O faremo da combustibile? O una sorte migliore ci aspetta: raccogliere e insegare questi tentativi?
A: Qui ci lasciamo, mio caro amico, per seguire ciascuno la propria rotta.
Articolo di Marco Cavazza