Da sempre i concetti di “bene” e “male” sono stati oggetto di contesa, fascino e, al tempo stesso, tormento per i filosofi di ogni epoca che si sono interrogati sulla natura della condizione umana, nonché sull’essenza dell’esistenza stessa. Da Platone a Nietzsche, da Agostino d’Ippona a Foucault, il m ha suscitato interrogativi e dibattiti di natura etico-morale di ogni tipo.
Ma se tali riflessioni, che strizzano l’occhio ad una visione dualistica della realtà e che generano sistemi filosofici morali, risultassero inadeguati ad interpretare le strutture attuali del nostro esistere? E come mai la filosofia accademica, nonché dominante, ha del tutto ignorato la voce di pensatrici originali che ha scandagliato il bene e il male da una prospettiva tanto inedita quanto efficace?
Tali sono gli interrogativi a cui cerca di rispondere la filosofa Annarosa Buttarelli che ha pubblicato per Edizioni Tlon il saggio Bene e male sottosopra. La rivoluzione delle filosofe indagando proprio tali concetti dal punto di vista femminista: Simone Weil, Françoise Dolto, Hannah Arendt, Flannery O’Connor, Maria Zambrano sono solo alcuni dei nomi citati.
Non è un caso se la filosofa e scrittrice italiana, apre il suo saggio partendo da Simone Weil che ha affrontato il tema del male attraverso la lente dell’empatia e della compassione per la condizione umana sofferente. Mediante un’analisi critica della condizione del lavoratore e dell’oppresso nella società industriale del XX secolo, ha evidenziato come il male possa manifestarsi in termini di disumanizzazione e alienazione. L’atto rivoluzionario della Weil (che poi sarà lo stesso, come vedremo, di tutte le pensatrici e poetesse evocate nel saggio) è quello di rinunciare a parlare di un bene di tipo assoluto e metafisico per calarlo nella realtà più concreta, tanto da arrivare a spogliarsi delle sue vesti da intellettuale e lavorare come operaia in fabbrica partecipando alle lotte sindacali del tempo al fine di vivere la filosofia non come mera speculazione teorica, bensì come pratica di vita. Da tutta questa esperienza nasce la concezione weiliana di male in termini di illimitato o, come scrive nei suoi Quaderni, di:
Pleonexìa: qualcosa che oltrepassa – no – tende a oltrepassare il limite al di là del quale questa cosa non può essere, ed è distrutta. […] La pleonexìa è il peccato originale. Desiderio d’ingrandirsi.
Tutto ciò, ovviamente, ricorda, come ben approfondisce la Buttarelli, «l’avidità, superbia dell’illimitato, volontà di sopraffazione» che oggi hanno condotto al disastro ambientale di cui siamo testimoni e artefici al tempo stesso. Per questo il concetto di bene, per Simone Weil, non può che tradursi nella capacità di generare pensieri originali (che ricorda vagamente la versione socratica di male inteso come difetto del ragionamento, dunque ignoranza del bene). Pensare in maniera originale non può che voler dire che bisogna pensare criticamente la realtà che viviamo in modo tale da poter, successivamente, comprendere quali sono i limiti da non superare e agire rinunciando all’ottica del dominio.
I pensieri originali di Simone Weil, però, non possono che condurci ad una delle figure femminili più influenti del pensiero politico del XX secolo, Hanna Arendt, che ha analizzato i sistemi totalitari e i crimini perpetuati dal regime nazista contro l’umanità. Nello specifico, nel suo libro La banalità del male, la Arendt si è concentrata sul processo di Adolf Eichmann, importante funzionario nazista e responsabile di aver organizzato la deportazione di numerosi ebrei. La filosofa utilizza in maniera lucida e puntuale l’espressione “banalità del male” per descrivere l’atteggiamento superficiale di Eichmann durante il suo processo. Il male, qui, non mostra più le sembianze di qualcosa di stra-ordinario ed eccezionale ma, al contrario, assume forme quotidiane ed ordinarie, incarnandosi in individui apparentemente mediocri e banali come l’ufficiale nazista. Infatti, non c’è nulla di demoniaco e mostruoso in Eichmann che si difende pronunciando la celebre frase: «ho obbedito agli ordini», ma la sua malvagità si riflette proprio nell’incapacità di generare quei pensieri originali citati prima, ovvero di pensare in maniera critica e, dunque, riuscire ad assumersi le proprie responsabilità davanti alle ingiustizie commesse. Questa specie di “coscienza anestetizzata” e priva di empatia ci fa capire come il male non ha nulla di Assoluto ma può incarnarsi di volta in volta in ogni uomo ordinario che commette femminicidio o, più in generale, in qualsiasi persona che si conforma acriticamente alle norme sociali e politiche dominanti prive di riflessione etica.
Il concetto di responsabilità etica è sicuramente presente anche nei racconti della scrittrice statunitense Flanery O’Connor, definita dalla Buttarelli come un’esploratrice del male. Attraverso la scrittura delle sue storie gotiche e per certi versi oscure, O’Connor ha esplorato il concetto del male attraverso la lente della religione cattolica offrendo una visione provocatoria del peccato e della sua conseguente espiazione. Nello specifico, la scrittrice ritiene che nessun essere umano possa vantare alcun merito qualora gli capiti il bene dal momento che è soltanto l’influenza della grazia a determinare gli eventi.
In particolare, nel suo libro Il cielo dei violenti è possibile leggere:
A garanzia del nostro senso di mistero, occorre un senso del male che veda il diavolo come spirito reale, spirito che va costretto a dichiararsi, e non semplicemente come male indefinito, bensì con una personalità specifica per ogni occasione
Rappresentando un ulteriore esempio della visione femminista di bene e male, Flanery O’Connor tende a sottolineare, ancora una volta, l’importanza di calare i concetti nell’esperienza concreta svincolandosi da rigidi modelli interpretativi. Dunque, anche in questo caso è necessario identificare il male in qualcosa di specifico e definibile rievocando i concetti di libero arbitrio (ognuno sceglie sempre quale strada imboccare) e responsabilità individuale. Se il male, però, è qualcosa di estremamente terreno e conoscibile in ogni momento, è importante tener presente che il bene e la grazia, invece, sono riconducibili ad una dimensione divina che abbraccia il mistero e porta un po’ di “infinito nel finito”.
In conclusione, il lavoro magistrale di Annarosa Buttarelli, ricalcando quelle che sono alcune delle più considerevoli voci del pensiero femminista, tende a mostrare come bene e male hanno finalmente perso la loro lettera maiuscola per diventare contingenti ed esperibili. Accettare e saper vivere il dolore e la sofferenza è necessario per poi trasformare tutto ciò che si è vissuto in una forma di conoscenza impossibile da racchiudere in rigidi protocolli morali e, perciò, più elevata perché creatrice di pratiche di vita che conducono ad una trasformazione soggettiva radicale.
Per dirlo con le parole di un’altra autrice, Katherine Mansfield, anch’essa citata nel saggio della Buttarelli:
Non voglio morire prima di aver lasciato una testimonianza della mia convinzione che la sofferenza può essere superata, bisogna sottomettersi, non resistere, accogliere il dolore, lasciarsi sommergere, accettarlo pienamente, farne l’arte della propria vita. Nella vita qualunque cosa venga realmente accettata, cambia, così la sofferenza deve potersi trasformare in amore, ecco il mistero.
Cara Giusy, molto bello questo articolo, mi ritrovo molto nelle citazioni di Annarosa Buttarelli, bisogna saper accettare la sofferenza che inevitabilmente ti regala la nostra breve vita, per poter godere meglio dei momenti di soddisfazione e bellezza che ci si propongono dopo aver accettato un periodo di sofferenza totale. Bellissimo lavoro complimenti.
Ottimo! Grazie Giusy.