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Dominio maschile e violenza simbolica. Su Pierre Bourdieu

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Ogni attività umana è per definizione un’attività simbolizzante nel momento in cui tende a conferire senso alla realtà circostante e cerca di com-prendere l’ordine accidentale del mondo. Qualora, però, il simbolo si radicalizza in un’unica forma predominante di senso, dimenticando l’esistenza di altre categorie di possibili e misconoscendo la sua originaria funzione pratica ma non esclusiva, corre il rischio di diventare pericoloso. In tal caso, nasce l’urgenza di pensare “contro il simbolico”, per usare il titolo dell’omonimo libro di Enzo Melandri, per ritornare a conferire dignità all’altra parte della realtà (in greco συμβάλλω significa proprio «mettere insieme, far coincidere») che esso ha celato onde evitare di esercitare la “forza simbolica”.

La violenza simbolica è, infatti, uno dei temi principali del saggio Il dominio maschile, pubblicato nel 1998 da Pierre Bourdieu, uno dei sociologi più importanti dell’età contemporanea. Con tale espressione, l’autore definisce una forma di violenza invisibile e che non lascia lividi sulla pelle, eppure tanto efficace da radicalizzarsi nelle strutture mentali dei dominanti così come dei dominati che finiscono, in tal modo, o per giustificare la portata e gli effetti di tale fenomeno o, nei casi peggiori, per non riconoscerne affatto l’esistenza. Per assurdo, sono gli stessi dominati ad agire e pensare in base alle regole del sistema, somatizzandone i contenuti simbolici e i modelli di valutazione allo stesso modo in cui i carcerati del Panopticon, consapevoli di essere potenzialmente esposti al controllo, interiorizzavano il controllore stesso secondo il principio di ispezione formulato da Jeremy Bentham nel Settecento.

Ovvero:

Quando i dominati applicano a ciò che li domina schemi che sono il prodotto del dominio o, in altri termini, quando i loro pensieri e le loro percezioni sono strutturati conformemente alle strutture stesse del rapporto di dominio che subiscono, i loro atti di conoscenza sono, inevitabilmente, atti di riconoscenza, di sottomissione.

La forza simbolica di cui stiamo parlando è quella esercitata dal dominio maschile e si spinge al di là della coscienza dei singoli soggetti, in quanto tende a radicalizzarsi in maniera inconscia nel corpo stesso e nelle sue differenze biologiche sessuali in modo tale da farle apparire non più come casuali e arbitrarie ma, al contrario, come evidenti e naturali (tanto che nel linguaggio comune capita di ascoltare espressioni come “è naturale che la donna sia il sesso debole”, “l’omosessualità è contro-natura”, ecc.). Da tale meccanismo ne consegue che il corpo biologico, in realtà, sia sempre “corpo socializzato” in quanto, a livello inconscio, esso (e soprattutto, in questo caso, gli organi sessuali) deve sottostare ad una definizione sociale e culturale.

Da un lato, dunque, troviamo il corpo com’è e dall’altro il corpo determinato socialmente secondo gli schemi percettivi dominanti che, nella maggior parte dei casi, portano le donne a considerare negativamente il proprio corpo e il proprio sesso. Quest’ultimo, infatti, come scrive Mithu M. Sanyal nel suo testo Vulva: la rivelazione del sesso invisibile non è mai stato pensato autonomamente ma è sempre stato percepito in relazione a quello maschile, come fosse un vuoto, una mancanza, un’entità inesistente, di cui si può parlare solo in opposizione al sesso maschile considerato pieno, esistente, superiore (tant’è che fino al Rinascimento non troviamo ancora nessun termine per nominare il sesso della donna concepito sia come “assenza di fallo” o, addirittura, come “fallo rovesciato”).

A tal proposito scrive Bourdieu:

La divisione tra i sessi sembra rientrare nell’ “ordine delle cose”, come si dice talvolta per parlare di ciò che è normale, naturale, al punto da risultare inevitabile. Essa è presente, allo stato oggettivato, nelle cose (per esempio nella casa, le cui parti sono “sessuate”), in tutto il mondo sociale e, allo stato incorporato, nei corpi, negli habitus degli agenti, dove funziona come sistema di schemi, di percezione, di pensiero e d’azione.

Non dovendosi giustificare in quanto verità chiara, naturale e tautologica, dunque, la visione androcentrica ne risulta legittimata affermandosi in modo incontrastato e neutro (non è un caso che proprio il neutro in alcune lingue sia associato al genere maschile tanto da usare, ad esempio, il termine “bambino” per indicare bambini di genere maschile e femminile; mentre il femminile ha necessità di essere costantemente reso esplicito).

Così la violenza simbolica che, ad un primo livello, riguardava strettamente la differenza biologica e sessuale tra il maschile e femminile si estende ad un punto tale da costituire la base per quella che diventerà una differenza sociale e culturale tra i generi, passando dalla socializzazione del corpo alla naturalizzazione della società declinata in ogni ambito dell’esperienza umana: dalla divisione sessuata del lavoro, risultando perciò “normale” che la donna debba ricoprire cariche lavorative di minor importanza o retribuite in modo più basso rispetto ad un collega del sesso opposto; sino alla struttura del tempo e dello spazio. (Bourdieu cita la distinzione tra gli spazi pubblici, ritenuti appannaggio del maschile come la piazza, e gli spazi privati, ritenuti esclusivi della donna come la casa di cui diventa l’angelo e la custode).

In un contesto tale, la diretta conseguenza è che la donna viene concepita come un oggetto il cui senso è da ricercare al di fuori di essa e il cui fine è quello di estendere il capitale simbolico dell’uomo, come è avvenuto sino ad oggi attraverso, ad esempio, il matrimonio o la procreazione di figli ai quali viene assegnato automaticamente il cognome paterno portando Kant a scrivere, nella sua Antropologia dal punto di vista pragmatico, che «la donna è per essenza senza nome, e questo perché manca, per natura, di personalità».

Tuttavia, però, per Bourdieu la violenza simbolica di tale dominio è un’arma a doppio taglio che finisce per danneggiare non solo il dominato ma anche il dominante che rimane prigioniero delle rappresentazioni costituite e normalizzate dall’ordine socio-culturale nell’ottica hegeliana del servo-padrone.  

Infatti:

Il privilegio maschile è anche una trappola e ha la sua contropartita nella tensione e nello scontro permanenti, spinti a volte sino all’assurdo, che ogni uomo si vede imporre dal dovere di affermare in qualsiasi circostanza la sua virilità. […] La virilità, intesa come capacità riproduttiva, sessuale e sociale, ma anche come attitudine alla lotta e all’esercizio della violenza (in particolare nella vendetta) è prima di tutto un carico. In opposizione alla donna, il cui onore, essenzialmente negativo, può essere solo difeso o perduto.

L’uomo, dunque, rimane imprigionato in quella sorta di esaltazione nevrotica del maschile imposta in maniera sistematica dall’ordine socio-culturale, avendo l’obbligo e il dovere di rispondere agli standard che lo vogliono forte, indomito, “con le spalle larghe” poiché, qualora ciò non avvenga, l’umiliazione peggiore sarebbe quella di risultare infantile o, addirittura, “una femminuccia”. È il caso del signor Ramsay, protagonista del romanzo di Virginia Woolf To the Lightouse, il quale viene sorpreso dalla moglie nell’atteggiamento imbarazzante – perché percepito come infantile – «di parlare fra sé a voce alta». Così facendo, il protagonista del romanzo non risponde più all’ideale di uomo e padre imposto dalla società fallocentrica e rischia di perdere la sua autorevolezza agli occhi della moglie e dei figli che iniziano a provare un sentimento di pietà nei suoi confronti.

Inutile dire, dunque, che smantellare il dominio maschile sarebbe liberatorio per tutti ma ciò mostrerebbe un certo grado di ingenuità critica. Sicuramente le donne, grazie alla crescente istruzione e al movimento femminista, sono riuscite a raggiungere un certo grado di emancipazione che, però, non risulta ancora sufficiente come dimostrano i vari casi di femminicidio e il fatto incontestabile che «esse sono sempre meno pagate degli uomini, a parità di condizioni, ottengono posti meno elevati per gli stessi diplomi e soprattutto sono più colpite, in proporzione, dalla precarietà dell’impiego e dalla disoccupazione».

Tuttavia, è importante continuare a lottare affinché avvenga una presa di coscienza collettiva riguardante l’esistenza di una violenza simbolica tra le più deleterie, provocata dal dominio maschile e dal patriarcato e che agenti come la famiglia, la chiesa, la scuola e lo stato hanno continuato a perpetuare attraverso un’azione di carattere sistematico. È necessaria per il progressivo declino del dominio maschile, conclude Bourdieu, «un’azione politica che consideri realmente tutti gli effetti di dominio che si esercitano attraverso la complicità oggettiva tra le strutture incorporate (sia negli uomini che nelle donne) e le strutture delle grandi istituzioni in cui si compie e si riproduce non soltanto l’ordine maschile ma anche tutto l’ordine sociale».

Giusy Nardulli

Nasce nel 1993 a Gravina in Puglia. Dopo la laurea in filosofia, lavora con i bambini del cui mondo si innamora insieme ai libri, le illustrazioni, le domeniche pomeriggio a scoprire “nonluoghi” con i suoi amici e i riti delle tisane.

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