Dove siamo arrivati nella corsa alla soluzione di uno dei più grandi temi filosofici? Quali teorie vanno per la maggiore? Abbiamo fatto progressi?
«Anche quando abbiamo spiegato l’esecuzione di tutte le funzioni cognitive e comportamentali in prossimità dell’esperienza […] può rimanere ancora un’ulteriore domanda senza risposta: perché l’esecuzione di queste funzioni è accompagnata da esperienza?». Così David Chalmers, in Facing up to the problem of consciousness, definisce l’hard problem della coscienza. L’hard problem è l’ostacolo più grande che filosofi e scienziati devono affrontare per far luce su uno dei misteri più grandi della filosofia: la coscienza.
Per coscienza si intende quello che gli anglosassoni chiamano consciousness. In italiano, il suo significato può essere reso in diversi termini come “coscienza fenomenica”, “esperienza soggettiva” o altre locuzioni che enfatizzano il fatto che l’esperienza non è un mero accadere buio e silenzioso, ma è accompagnato sempre dalle sue proprietà. Intesa in questo modo, quindi, la coscienza copre tutti i vari tipi di ordine e struttura che si trovano nel dominio dell’esperienza, cioè nel dominio del mondo per come ci appare.
Alcune prospettive sulla coscienza
Il problema della coscienza anima il dibattito filosofico ormai da svariati secoli. Se nell’antica Grecia non emerge il tema per come lo intendiamo oggi, a partire da Cartesio in poi, la coscienza diventa pienamente centrale. Il filosofo francese, tra l’altro, ha introdotto una delle teorie più note: il dualismo. Stando a questa visione, il fisico e il mentale, dunque anche la coscienza, sarebbero due componenti o sostanze di genere diverso che popolano la realtà. La maggior parte degli scienziati e dei filosofi, al giorno d’oggi, non sottoscriverebbe apertamente questa concezione, per via degli enormi problemi che si porta dietro. Come riescono a interagire il mentale e il fisico? L’uno può tradursi nell’altro? È noto il problematico ricorso di Cartesio alla ghiandola pineale dove l’anima (o il mentale) interagirebbe col fisico.
Un’altra interpretazione classica legata al tema della coscienza è quella dell’idealismo. Questa idea, generalmente associata al vescovo anglicano irlandese George Berkeley, afferma che sarebbe proprio la coscienza o la mente a costituire la fonte ultima della realtà. In altre parole, la materia non esisterebbe indipendentemente dalla mente: esiste solo ciò che è percepito.
Ci sono, poi, teorie più creative. Il panpsichismo è una di queste. Per i panpsichisti, la capacità di sentire e percepire è una caratteristica fondamentale e onnipervasiva di tutte le cose. Detto in altri termini, ogni sostanza sarebbe allo stesso tempo sia fisica che mentale. La coscienza sarebbe, dunque, una proprietà fondamentale dell’Universo. Esistono diverse versioni del panpsichismo che, tuttavia, non portano a tesi esplicative sulla coscienza.
Negli ultimi anni, l’approccio che va per la maggiore è senz’altro il fisicalismo. In parole povere, la tesi del fisicalismo è che tutto è fisico. I fisicalisti riducono le proprietà mentali alla dimensione materiale, generalmente, anche se non sempre come vedremo, facendola ricadere su stati e processi di ordine neurale o neurofisiologico. Citando Francis Crick «La vostra persona, le vostre gioie e dolori, i vostri ricordi e le vostre ambizioni, il vostro senso dell’identità personale e del libero arbitrio non sono in realtà che il comportamento di un immane aggregato di cellule nervose e molecole attinenti». Come scrisse T. H. Huxley, nel 1866: «Come mai qualcosa di così straordinario come uno stato di coscienza si verifichi a causa dell’irritazione del tessuto nervoso, è altrettanto inspiegabile quanto l’apparizione del Genio, quando Aladino strofinò la sua lampada».
Luci e ombre delle neuroscienze
Neuroscienziati e scienziati cognitivi concordano sui termini generali di questo quadro filosofico di fondo: la coscienza non è altro che l’esito delle interazioni dinamiche autorganizzate tra le componenti di livello inferiore del sistema nervoso e i livelli superiori dell’organizzazione neurale. In questo modo, i processi neurali danno luogo a immagini e sensazioni coerenti. Tuttavia, rimane da stabilire come questo possa accadere: l’hard problem non può essere raggirato.
A questo scopo, i neuroscienziati e gli scienziati cognitivi hanno preferito battere un sentiero di ricerca più gestibile ma che, almeno in teoria, dovrebbe produrre piccoli passi verso la risoluzione del problema. Questo sentiero di ricerca è lo studio dei fondamenti cerebrali per la comprensione della coscienza. Si ritiene che, studiando l’attività cerebrale in presenza di fenomeni coscienti si possa scoprire qualcosa in più sul mistero della coscienza. Questa attitudine ha portato allo studio dei correlati neuronali della coscienza (NCC). L’approccio NCC suggerisce che vi sia qualche configurazione specifica dell’attività neuronale responsabile di qualsivoglia esperienza, come l’esperienza del “vedere rosso”. Sulla base di questa idea sono state costruite diverse teorie che divergono sia sulle proprietà neurali a cui fanno appello, sia negli aspetti della coscienza che assumono come explananda: alcune si basano su caratteristiche sistemiche di alto livello del cervello, altre su proprietà fisiologiche o strutturali.
I problemi della strategia NCC sono principalmente due. Il primo è che non riesce a distinguere un vero correlato neurale della coscienza da altri fattori come, ad esempio, l’attività legata al “prestare attenzione”. Il secondo è che le correlazioni non sono spiegazioni. Per questi motivi, Anil Seth, col suo gruppo di ricerca, ha proposto un altro metodo per arrivare alla coscienza: sostituire l’hard problem con il “real problem”. Quest’ultimo eviterebbe sia le difficoltà legate all’hard problem sia quelle legata a NCC. L’obiettivo del real problem è quello di spiegare, predire e controllare le proprietà fenomenologiche dell’esperienza, cioè spiegare perché una particolare esperienza cosciente ha le proprietà fenomenologiche che ha nei termini dei meccanismi e dei processi fisici relativi al cervello e al corpo. Questo programma di ricerca è approdato alla concezione della coscienza come allucinazione controllata: il cervello è una macchina predittiva che traduce gli input sensoriali del mondo esterno nelle “migliori ipotesi” di spiegazione di tali input. Tali “migliori ipotesi” sono ciò che vediamo, sentiamo e proviamo.
Tantissimi finanziamenti sono investiti ogni anno per la ricerca delle radici neurali della coscienza. Tuttavia, nonostante alcune scoperte interessanti, non è ancora minimamente spiegato perché mai l’attività cerebrale dovrebbe trasformarsi in un contenuto fenomenico. «Come mai qualcosa di così straordinario come uno stato di coscienza si verifichi a causa dell’irritazione del tessuto nervoso, è altrettanto inspiegabile quanto l’apparizione del Genio, quando Aladino strofinò la sua lampada». Le parole di T. H. Huxley nel 1866 rimangono ancora attualissime.
Mind-Object Identity
Secondo Riccardo Manzotti, professore ordinario di filosofia teoretica presso l’Università IULM di Milano le neuroscienze ricadono in quella che viene chiamata la “fallacia del fantoccio”: essa consiste nella sostituzione di un problema difficile con uno più semplice da trattare, il fantoccio appunto.
Manzotti sostiene che non è mai stato trovato niente all’interno del cervello che possa essere ricondotto alla coscienza. Al massimo, sono saltate fuori alcune correlazioni. Non abbiamo nessuna fotografia di un pensiero o di una immagine mentale. Ciò è sintomo del fatto che stiamo affrontando un problema, la coscienza, armati di un pregiudizio di cui non riusciamo a liberarci. Questo pregiudizio, secondo Manzotti, è l’idea che l’Io è all’interno della nostra testa e che attraverso i sensi, che sono finestre, vediamo la realtà esterna. Il presupposto ontologico, dietro alle ricerche delle neuroscienze, è quello di una separazione tra l’Io, appunto, e il mondo esterno. La coscienza sarebbe il ponte che collega questi due domini. Tuttavia, come si è accennato, le neuroscienze non riescono a spiegare l’emergere dell’esperienza cosciente a partire dai correlati neurali.
Manzotti ribalta completamente la prospettiva: siamo veramente separati dal mondo esterno? L’io è davvero un principio all’interno del corpo, che necessita della coscienza per fare esperienza del mondo esterno? L’ipotesi di Manzotti, chiamata la Mind-Object Identity (MOI), è che l’esperienza che abbiamo di un oggetto è l’oggetto che esperiamo. Noi non siamo all’interno del nostro corpo. Noi siamo il mondo che esperiamo e il nostro corpo dà al mondo la possibilità di produrre effetti. Esperienza, io e mondo sono esattamente la stessa cosa. Questa ipotesi ha il merito di fondarsi su una concezione totalmente fisicalista. Inoltre, risolve alcuni problemi tradizionali della filosofia come l’intenzionalità e il carattere fenomenico.
Il tema della coscienza ci costringe a ricercare noi stessi all’interno del mondo. L’aspetto più interessante della teoria di Manzotti è che, come Pirsig in Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, mette in discussione la concezione standard del mondo fisico e il rapporto tra soggetto e oggetto.